I disturbi dell’umore nel ciclo di vita
Uno dei passi fondamentali che qualunque operatore dell’ambito psichico deve compiere per approcciarsi proficuamente e onestamente alle tematiche del ciclo di vita è quello della accettazione delle reciproche soggettività: la propria e quella della persona che gli sta davanti. La parola d’ordine che segna qualunque considerazione che riguarda la salute e il benessere delle persone nel loro attraversamento delle fasi della vita è quella di mettere “al centro” la salute del paziente; la domanda che dovremmo a questo punto porci è quale “salute” mettere al centro, se quella del nostro paziente o quella dei pazienti che hanno la stessa malattia del nostro paziente oppure della popolazione a rischio di contrarre quella malattia? Ancora, se poniamo, mettiamo, al centro la salute del nostro paziente, allora qualcosa o qualcuno deve stare fuori centro: può essere la struttura in cui operiamo, oppure gli interessi sociali, economici o organizzativi, potremmo essere anche noi fuori dal centro, defilati in posizione subalterna. Quanto siamo disposti, noi operatori della salute e del benessere, a tollerare l’idea di un fine che vede soltanto, o soprattutto, il paziente come protagonista unico di un “viaggio”, che potrà durare un’ora oppure decenni? Vi racconto un esperimento che venne fatto agli inizi degli anni ’90 e che ci racconta quanto sia radicata da presto nell’uomo la difficoltà di sottrarsi alla tentazione di universalizzare la propria esperienza, la propria soggettività: un bambino di tre anni vede un suo amico nascondere un pezzo di cioccolato in una scatola ed uscire dalla stanza. Subito dopo lo sperimentatore entra e sposta la cioccolata in una seconda scatola. Si chiede al bambino di tre anni dove l’amico ignaro cercherà il cioccolato: la risposta è: la seconda scatola, mentre i bambini più grandi opteranno per la prima. Cosa è successo? Il bambino di tre anni fa inconsapevolmente quello che noi adulti facciamo pervicacemente: esporta la propria esperienza nell’altro, coinvolgendone il pensiero nella propria visione soggettiva, ma negandone l’altrui. Quando ci riempiamo della nostra esperienza e della nostra soggettività, corriamo il rischio di sopprimere o non cogliere quella degli altri, mortificando la progettualità dell’altro e la bellezza di una relazione tra persone differenti. Abbiamo spesso ragionato in modo dogmatico, rigido, indossando delle maschere di cui non riusciamo a privarci, un po’ per garantirci un certo status sociale, un po’ per esorcizzare e allontanare la paura di ritrovarci simili a chi ci sta di fronte, che a volte è malato, a volte è malato e vecchio. Quando siamo con i nostri pazienti, soprattutto se sono anziani o sono più anziani di noi, noi terapeuti ci troviamo ad impegnare il nostro Senex e il nostro Puer; condividiamo parecchi percorsi psichici dell’altra persona, ci ritroviamo a considerare non soltanto nell’altro, ma anche in noi stessi, la paura della malattia, dell’invecchiamento, delle sempre più accentuate limitazioni psico-fisiche, della morte. Sentiamo che in quel confronto, in quel dialogo, non c’è un uomo sano che si propone di curare un uomo malato, ma c’è un terapeuta consapevole delle proprie malattie, che si impegna a curare, ma che è disposto ad accogliere riflessioni e stati d’animo ambigui, in cui la nettezza della separazione tra bene e male, buono e cattivo, è terribilmente sfumata, e quindi ci appoggiamo alle teorie che ci proteggano da velleità estemporanee, ma cercando sempre una comprensione che ci consenta di avvicinarci all’altro per coglierne l’individualità. Se ciò che facciamo ha uno scopo, forse il principale è quello di aiutare le persone a “compiere” la vita, che non sia, riprendendo Jung, perfetta, ma completa. Quello che manca all’uomo contemporaneo è il senso di protezione che era costituito dai riti che davano anche al processo di invecchiamento un significato condiviso, anche perché oggi è sempre più raro riscontrare nelle persone un vero afflato fideistico nella vita eterna, che dà senso all’intera esistenza. Le grandi religioni promettono una vita oltre la vita, mentre oggi ai simboli, portatori di mistero e di speranze non filtrate dall’intelletto e dalla ragione, si è sostituita la scienza con i suoi segni, il cui significato univoco, netto, non lascia spazio alla speranza nell’ultraterreno e relega l’uomo nel recinto del mondo, oltre il quale nulla ha senso e la ricerca di senso diventa dramma e disperazione. Ci affidiamo, allora, all’inconscio, alla sua ambiguità, che se da un lato ci atterrisce e ci spiazza (quindi la snobbiamo volgendo lo sguardo altrove), dall’altra la accogliamo come possibilità di riappropriarci di immagini, di simboli che ci aiutino ad orientarci verso il futuro, che nel vissuto delle persone anziane appare più prossimo e immanente. Guggenbühl-Craig (1991) scrive: «Penso che la psicoterapia delle persone anziane crescerà di importanza nelle prossime decadi. Tuttavia questa terapia non mirerà alla maturità e alla saggezza. Invece la psicoterapia consentirà al vecchio di conoscere la propria follia, di capire e apprezzarne i vantaggi e gli svantaggi. I ricordi dell’infanzia e della gioventù potranno essere discussi con lo psicoterapeuta, non al fine di provocare grandi cambiamenti psicologici, ma per apprezzare la tragicomica mascalzonata che sono l’infanzia e la gioventù».Tag: ciclo di vita