Se nel 1819 uno psichiatra di scuola francese sosteneva che città di mezzo milione di abitanti fossero “deviazioni della natura”, oggi i grandi centri sono diventati il luogo per antonomasia in cui si raccolgono le maggiori opportunità relazionali tra le persone, ma è nelle città che possiamo rilevare le più ampie e paradossali dicotomie: a fronte della più alta concentrazione e prossimità tra le persone, nonché di contatti volontari e involontari, duraturi ed effimeri, e la cui natura è estremamente disparata (contatti di lavoro, di parentela, di vicinato, di cura, di trasporto, di manifestazioni pubbliche, ecc.), tali “incroci” sono contraddistinti da un diffuso senso di anonimato e da una sempre maggiore diffidenza verso il prossimo, che si estende a una pervasiva diffidenza e malvolenza verso le istituzioni e le norme del vivere civile: l’aspetto privato dell’individuo disconosce la res publica che, in quanto di tutti, diventa di nessuno.
Tra gli innumerevoli temi legati ai fattori psichici applicati al “senso civico” ne ho estratti tre, con un unico filo conduttore, che ritengo essenziale per restituire senso e pregnanza al rapporto tra l’individuo e la comunità di appartenenza, ma anche per rendere la vita in città una concreta e condivisa “esperienza dell’anima”: la Bellezza.
TEMI:
ESTETICA DELLA POLIS (Reazione estetica come risposta politica)
COSCIENZA DEL BRUTTO, BISOGNO DEL BELLO
MIGLIORARE I LUOGHI DI VITA E DI APPARTENENZA (averne cura per accrescerne la bellezza e produrre benessere)
ESTETICA DELLA POLIS
La polis è, analogamente all’inconscio e all’Ombra, il luogo psichico in cui l’individuo sovente “deposita” o cela ciò che appare vergognoso o inaccettabile. Ecco perché, quando parliamo del rapporto tra polis e individuo, stiamo analizzando la relazione che intercorre tra l’inconscio e la coscienza: polis e Sé sono entità psichiche indivisibili. Trascurare il rapporto polis-individuo espone il sistema sociale ad una forma di cesura tra la parte “pubblica”, esteriore (la Persona) e la parte “privata”, interiore (l’Ombra).
Allorquando l’individuo ignora la propria dimensione pubblica o le si sottrae (o, viceversa, il “pubblico” abbandona l’individuo), la polis stessa diviene inconscia, cioè ricade in una zona d’ombra in cui non vi è “consapevolezza relazionale”. È come una forma di anestesia, che è causa primaria della passività politica dell’individuo-cittadino: tale disinvestimento crea le condizioni psichiche e fattuali affinché chi detiene il potere consolida e prosegue la propria egemonia, amplificando il distacco tra classe egemone e cittadino succube. Si verifica un paradosso: il disinvestimento partecipativo, in quanto privo di “pensiero attivo”, toglie alla democrazia l’opportunità del conflitto politico e di una consapevole opposizione. Abbiamo una classe di cittadini autocentrati, ma fondamentalmente inconsci, “senza memoria e senza desiderio”.
L’individuo è un animale aristotelicamente politico ed è proprio attraverso il suo investimento politico che trova la propria realizzazione e la propria completezza sociale e psichica; compito e missione della classe politica è il governo delle energie conflittuali, alla ricerca dell’armonia, così da gettare le basi di una vita socialmente piena e desiderabile, i cui effetti positivi si riverberano anche nella dimensione privata dell’individuo. È, sempre secondo le concezioni aristoteliche, la ricerca della vita felice: “Tutte le cose le scegliamo in vista della felicità; essa infatti è il fine” (Aristotele, Etica a Nicomaco).
Così come l’agire politico e sociale influenza la dimensione privata e individuale, anche la componente “naturale” dell’individuo contagia ed è contagiata dalla sua parte “urbana”, in un mutuo interscambio: l’ambiente cittadino, proprio perché immaginato, progettato, realizzato ed abitato dalla natura psichica e fisica dell’uomo, è un ambiente naturale. Affinché l’individuo ritrovi un funzionale dialogo con il proprio essere naturale, occorre imitare i processi della natura, anziché ciò che il processo ha realizzato, percorrendo i modi della natura, non le cose della natura: non un fiume posticcio, ma una strada il cui andamento sinuoso abbia eguale valore psicologico ed evocativo del fiume reale; non un laghetto artificiale, ma una piazza piana, circolare (témenos), in cui chiacchierare, incrociare le traiettorie degli altri, gli sguardi degli altri, protetti dai confini della piazza. Con questa filosofia progettuale, la componente “naturale” delle forme e dei luoghi costruiti risuonerà sincronicamente con la psiche dell’individuo.
L’agire politico deve mirare al benessere dell’individuo, ma non in modo generico, bensì perseguendo l’armonia naturale, attraverso la mediazione tra le forze contrastanti. Continuando a percorrere il pensiero di Aristotele, l’uomo è un essere naturalmente socievole, per cui l’organizzazione-città deve possedere e perseguire naturalmente un dinamico equilibrio tra i cittadini e le loro energie, attraverso la politica: dall’enérgheia (la forza) all’érgon (l’opera), che è un prodotto del singolo, ma che è sincrona con le altre individualità e – conseguentemente – con la collettività.
L’in-dividuo (in-divìduus, non diviso) è una “monade” solo in apparenza, poiché nell’uomo è innata la ricerca della esposizione della propria forma pubblica, cioè della propria immagine: questa, nella Psicologia Analitica, è la Persona (l’antica maschera latina). Una deriva psichicamente nociva per l’uomo è la progressiva trasformazione delle sue competenze comunicative in competenze informative: l’informazione surclassa la comunicazione, delineando un profilo psicologico che vira verso una forma di autismo e crea una separazione drammatica tra l’immagine ed il suo pensiero retrostante: non vi è più legame tra realtà e immagine, la quale si riduce ad essere un mero simulacro.
Il ruolo del cittadino deve evolvere da una funzione gregaria e fondamentalmente anonima, fatta salva una minoranza di individui, ad un ruolo di “azionista” della città. Una comunità moderna necessita di una diffusa e ramificata cultura della polis, che può trovare una realizzazione concreta nella istituzione di spazi d’anima e fisici ove persone e gruppi possano individuarsi, conoscersi, incontrarsi e interagire. Alla politica la collettività chiede di porsi come punto di approdo e di riconoscimento, come rete tra l’immaginario degli individui e le sue azioni, i suoi desideri, le sue abilità… Ciò significa dare dignità al prossimo e alla sua alterità, che ha nella sua differente unicità la propria forza e la propria funzionale ragion d’essere: reciproci e mutui scambi di competenze e sogni. Uno scambio continuo di risorse e progetti, psichici e fisici, è il fondamento “sano”, funzionale e concreto della democrazia partecipativa, che agevola la formazione degli individui-cittadini competenti: la competenza dà alle persone gli strumenti per giudicare e influenzare le scelte politiche; tali strumenti, però, rischiano di rimanere mezzi sterili se ad essi la politica non fornisce “luoghi” di incontro e scambio, ponendosi come medium e interprete tra le diverse competenze (il grande etologo austriaco Konrad Lorenz operava un parallelo tra le periferie urbane e le cellule tumorali: “La cellula neoplastica si distingue da quella normale principalmente per aver perduto l’informazione genetica necessaria a fare di essa un membro utile alla comunità di interessi rappresentata dal corpo (…). Tra l’immagine della periferia urbana e quella del tumore esistono evidenti analogie: in entrambi i casi vi era uno spazio ancora sano in cui erano state realizzate una molteplicità di strutture molto diverse, anche se sottilmente differenziate tra loro e reciprocamente complementari, il cui saggio equilibrio poggiava su un bagaglio di informazioni raccolte nel corso di un lungo sviluppo storico (…) Il panorama istologico delle cellule cancerogene, uniformi e poco strutturate, presenta una somiglianza disperante con la veduta aerea di un sobborgo moderno con le sue case standardizzate, frettolosamente disegnate in concorsi-lampo da architetti privi ormai di ogni cultura – Konrad Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, pp.38-39, 1974, Adelphi, ed. or. 1973).
Ciò non equivale a teorizzare una partecipazione universale ai processi decisionali di governo e di amministrazione della comunità, poiché tale utopia, oltre a portare alla impossibilità di prendere decisioni, sarebbe irrealistica: compito della classe politica è il governo e la ricerca della complessità, che consiste nella capacità di scelta ragionata e, quindi, di riduzione delle opzioni praticabili. Dovendo operare delle decisioni, che sovente non consentono soluzioni intermedie, ma drastici “sì” o “no”, con questi ultimi in grande maggioranza, il sistema politico di governo deve sottrarsi a forme di populismo psichicamente “economiche” – nel breve periodo – ma che, in tempi più lunghi, danneggiano l’intera comunità, rallentando o bloccando lo stesso processo decisionale e – fattore forse ancor più critico – abbassando il livello di complessità, quindi impoverendo e “accorciando” la visione e la missione di chi governa. La selezione delle opzioni che provengono dal basso non equivale, però, alla cancellazione delle scelte o delle proposte non attuate o non attuabili, poiché deve vigere il criterio della sospensione delle alternative scartate, le quali sono inattuabili nella condizione attuale, nell’hic et nunc.
COSCIENZA DEL BRUTTO, NECESSITÀ DEL BELLO
L’ambiente cittadino è sempre più invaso dal un pervasivo “rumore” di sottofondo, che preclude all’individuo la possibilità di avere dei luoghi in cui, nel silenzio, possa preservare il contatto con la propria anima, in un naturale ed essenziale movimento di introversione. Il “rumore sonoro del mondo” equivale all’incessante, “rumoroso” bombardamento di immagini, spesso violente e stranianti, che appaiono sempre più simili a “simulacri visivi”, cioè immagini senza sostanza.
La vita cittadina, con le sue velocità, i suoi stimoli continui e dissonanti, le sue frenesie, nutre incessantemente i propri abitanti in un continuo, saturante arricchimento di informazioni, input, attrazioni, problemi, idee… L’individuo, riprendendo Weber, si stanca, ma non si sazia: la vita dell’individuo vive di provvisorietà e non di limiti definiti.
Una delle più allarmanti non-reazioni del cittadino contemporaneo è una immaturità “di ritorno”, che lo porta ad ignorare, quindi a trascurare, l’ambiente a lui circostante e i fenomeni naturali connessi: dal sorgere del sole, all’alternanza delle stagioni, al formarsi di un arcobaleno, al cielo stellato… Tale non-reazione, che equivale ad una vera anestesia sensoriale e psichica, si rileva sovente, per analogia, anche di fronte alle brutture partorite dall’uomo, verso le quali l’individuo appare inconsapevolmente rassegnato ed assuefatto ad una concezione grossolana, sciatta e priva di idea (idea e video, cioè vedere, provengono dallo stesso etimo); ecco che un panorama metropolitano trascurato, un quartiere degradato, oppure la non-cura dell’arredo o del verde pubblico, sollecitano una reazione sensoriale diffusa, rivelando, appunto, una assuefazione al “basso” e al “brutto”. Tale “appiattimento sensoriale collettivo” è il segnale preoccupante di un analogo appiattimento e imbarbarimento dell’anima individuale, poiché è nella comunità che la psiche dell’individuo proietta sé stessa: l’uomo deve ricominciare a progettare il proprio luogo di vita, perché questo abbia senso per l’uomo stesso. Progettare, però, significa immaginare il futuro proprio e dei propri figli, significa trovare scopi, per amare la Bellezza e dare senso alla propria vita e alle persone con cui viviamo.
Sovente, l’individuo coglie il senso di appartenenza alla propria comunità quando uno spazio “sufficientemente ampio” si frappone tra sé e la comunità. È come se la distanza consentisse di apprezzare e comprendere il senso del tutto. L’intervento della politica dovrebbe essere quello di consentire alla psiche dell’individuo di “vedere” il Bello dei propri luoghi e dei propri oggetti nella continuità del vivere e nella compartecipazione alla cosa e non soltanto come reazione alla distanza o alla mancanza.
Da ciò discende l’idea di “salute” dell’individuo e della collettività, intesa come armonia della comunità; analogamente, la mancanza o la perdita della salute corrispondono alla “malattia” come metafora dell’inquinamento e dello squilibrio del corpo sociale, non solo del singolo individuo. L’individuo – e la collettività – si ammalano ogni volta che innalzano costruzioni “brutte”, “mostruose”, ogni volta che sporcano l’ambiente o consumano indiscriminatamente, o sprecano risorse, per l’inconscio bisogno di fuga dalla noia e dalla disperazione. Una condotta di vita irrispettosa verso gli altri e verso sé è sovente illecita, ma è anche antisociale e venefica per il benessere dell’individuo, poiché tale stile di vita uccide l’anima dell’uomo e l’anima del mondo.
L’individuo deve ri-scoprire l’armonia e il Bello all’interno del recinto della propria città, in cui assistiamo alla rimozione – psicologica e fisica – della Bellezza; se oggi l’uomo cerca il proprio surrogato di bellezza e armonia nella “Natura”, intesa come luogo esterno e più o meno incontaminato, “altro” rispetto alla città-témenos, è a causa di una inversione di paradigma che è avvenuta negli ultimi secoli: in passato i luoghi posti fuori dalla cinta muraria erano dimore del diavolo o in genere del pericolo e dell’incerto, mentre nelle città l’individuo trovava protezione e sollazzo, oltre che la propria identità. Le grandi costruzioni del passato, soprattutto i luoghi di culto, erano il punto di contatto tra Dio e l’uomo: se il Divino ispirava, l’individuo realizzava. Occorre risvegliare nell’anima del cittadino il desiderio e la ricerca della Bellezza, attraverso musei e mostre diffuse, manifestazioni musicali, sportive, ma anche restituendo senso agli edifici di pubblica funzione – uffici pubblici, ospedali, stadi, caserme… -, affinché siano luoghi di incontro, di sorpresa, di meraviglia e di creatività, anziché meri “oggetti” utili ed efficienti.
Per conseguire tutto ciò, occorre affidare alla diretta gestione e responsabilità del cittadino la scoperta, la ri-creazione e la regolamentazione della fruizione della Bellezza; va percorsa una idea psicologica della Bellezza, dalla quale va colta l’essenza estetica e di cui va goduto il positivo effluvio, ma lasciandola inalterata per sé e per gli altri. Altra cosa sarebbe l’idea di una opera d’arte che possa essere condivisa nella sua realizzazione progressiva, nel senso che i cittadini avrebbero la possibilità di concretizzare, individualmente e coralmente, la propria Idea di Bellezza, realizzando veri e propri progetti artistici in luoghi pubblici – spesso trascurati, mal progettati, mal collegati e non mantenuti – che potrebbero, così, sottrarsi alla propria dis-identità e ad una condizione di “terra di nessuno”, per acquisire Identità e divenire luoghi di Creazione, Trasformazione e Meraviglia. La città, da luogo di degrado psico-esistenziale opposto ad una Natura “buona”, potrebbe divenire il Centro di rinascita della capacità “attiva” dell’individuo, attraverso le sue innate attitudini sociali e relazionali.
La bellezza appare soffocata, ma ancor di più appare smarrita la sensibilità alla Bellezza e l’Amore per la Bellezza. L’inversione di rotta passa attraverso il senso per cui devo provvedere al benessere del mio luogo di vita e al suo mantenimento: garantirlo per una forma di dovere morale, oppure nutrirlo per Amore: la mia casa, il mio giardino, il mio quartiere, la mia città, posso rispettarli, non danneggiarli, non sfruttarli “perché non si fa”, oppure – la differenza è fondamentale – perché li sento miei, li sento unici, li vivo come il luogo dei miei Padri e dei miei Figli. Io questi luoghi li amo.
Altro aspetto altrettanto importante è la relazione che viene spesso sottolineata tra la pratica della Bellezza e le sue ricadute economiche; la bellezza, fatti salvi rari e illuminati esempi, è considerata antieconomica, qualcosa di voluttuario che esorbita da una economia di mercato produttiva. L’artista, lo psicologo, l’antropologo, sono i professionisti la cui consulenza specifica è scarsamente o per nulla tenuta in considerazione, poiché il benessere fisico, psicologico, ambientale ed estetico non sono considerati fattori proprietari ai fini della progettazione e del mantenimento dei luoghi di vita, poiché inutilmente costosi. Tale chiave di lettura omette di cogliere i costi sommersi, ma reali – sovente dolorosamente drammatici – e conseguenti ad un regime di vita votato all’incuria, alla sciatteria e alla povertà estetica: depressione, micro-criminalità, assenteismo nei luoghi di lavoro, scarsa capacità di attrazione di capitali esterni e di flussi turistici di qualità, ecc. La classe governante deve comprendere l’importanza dell’armonia e del bisogno di utilizzare spazi, oggetti e persone in modo pensato, continuativamente curato e sensato.
MIGLIORARE I LUOGHI DI VITA E DI APPARTENENZA
Per conoscere e comprendere l’individuo non si può prescindere dall’ambiente politico in cui egli nasce, vive, cresce e termina la sua vita; la persona “offre” la propria identità alla comunità in cui vive e da cui è a sua volta “impregnata”. Ciò che di noi cambiamo e miglioriamo causa analoghe reazioni nella comunità di riferimento. Tale risonanza non è sempre ben accetta dal Sé dell’individuo, che per ritrovare il proprio Centro prova a ricreare luoghi di isolamento artificiali e privati (il club esclusivo, le realtà virtuali dei videogiochi, l’isolamento conseguente all’abuso o all’uso improprio degli erroneamente detti “social” network, ecc.); una via di apertura al mondo “reale”, invece, dovrebbe vedere l’uomo protagonista “per strada”, parte attiva e “buona”, cioè, della vita cittadina.
Questa predisposizione ad essere parte attiva e “buona” non ha soltanto la finalità di migliorare la comunità in cui l’individuo vive: ambiente fisico e individuo risuonano sincronicamente, consentendo alla persona di godere di un concreto benessere psico-fisico. Il rapporto città-cittadino ha ragion d’essere nel mutuo interscambio di valori, energie, opportunità e risorse: l’abitante della città necessita dell’humus metropolitano, così come la città “sopravvive” e prospera solo grazie ai suoi abitanti: affinché un luogo abitato da una moltitudine di individui possa ri-trovare valori, solidarietà, risonanze emotive, occorre riscoprire le arti e chi le sogna, le progetta e le realizza. Le botteghe, le piccole fabbriche, i laboratori, sono il nucleo essenziale e vitale della città, ed è da essi che può emanare quell’energia che coinvolga ed inglobi progressivamente l’intero tessuto cittadino: l’anima della città deve pervadere le cose e le persone che “fanno” la comunità.
La comunità non è semplicemente un raggruppamento casuale di persone che frequentano casualmente gli stessi luoghi: affinché l’insieme di individui diventi “comunità” è indispensabile che i cittadini intessano legami significativi. L’anima delle città si nutre di suoni, odori, visioni e sguardi; l’incrocio di sguardi sostiene e sostanzia le relazioni umane. La città deve creare e preservare quei luoghi che consentano tali occasioni di incontro e di scambio: un incrocio di sguardi è un evento insieme privato e pubblico, è un “fatto d’anima”. Questi luoghi, preposti o spontanei, dovrebbero essere “piazze” in cui le persone possano sospendere le loro consuete attività “produttive” e “funzionali” e dove abbiano i propri orizzonti di riferimento (il giardino, la tettoia, i sedili, la piscina, la terrazza, l’albero, la fontana, la scalea…), che consenta loro di sentire quel luogo come “cosa pubblica”, vissuta come “casa pubblica”, ed in cui, proprio come in una casa, gli abitanti, durante il soggiorno, possano chiacchierare, conoscersi, muoversi, suonare, mangiare, riposare, raccontare, ascoltare… (Il racconto e l’ascolto sono la colonna sonora e portante di ogni comunità “sana”; prima dei giornali e – in generale – della scrittura, i fatti e le notizie riguardanti la vita delle comunità venivano conosciuti, condivisi e trasmessi oralmente).
L’utilità dei luoghi di incontro risponde ad una esigenza anche fisica dell’individuo di “vivere” il proprio essere corporeo in modo pubblico, oltre che privato. Vivere armonicamente la propria città, nella propria città, passa attraverso i rapporti umani, che sono il mattone fondante di ogni comunità; un luogo continuativamente abituato da un insieme di persone evolve in domus, in casa comune, grazie ai rapporti che si instaurano tra le persone che condividono tale luogo. Una rete di relazioni “sana”, “nutriente”, accresce la capacità “centripeta” di una città, che è una specie di “indice di desiderabilità” della città stessa.
È necessario ed urgente contrastare la progressiva perdita della dimensione privata, cioè protetta (da uno strisciante, pervasivo e continuo caos subliminale) e la fuga nel privato e – di converso – nelle grandi e informi masse: occorrono spazi medi, agevolmente raggiungibili, sicuri e interconnessi.
Una città “armonica” è una città in cui le due anime – produttiva e ludico-ricreativa – non solo dialogano reciprocamente, ma si intersecano nei rispettivi campi, nei luoghi, nelle persone e nei tempi di svolgimento delle rispettive attività: ogni drastica separazione “d’uso” (gioco versus lavoro, ozio versus efficienza) crea una frattura nell’anima dei luoghi; esempio emblematico è rappresentato da quelle città in cui sono stati progettati – e realizzati – i cosiddetti “quartieri degli affari”, “centri direzionali”, ecc. Si creano delle enclavi che, esaurita la funzione precipua, rimangono territori privi di identità e avulsi dal resto del territorio cittadino. La concezione e l’utilizzo di frazioni della città solo per uno o pochi scopi, per scelta deliberata o per ignoranza concettuale, è un fatto umanamente innaturale e storicamente recente: la creazione e lo sviluppo di nuclei abitativi, evoluti progressivamente in città, ha rappresentato un fatto psicologico istintivo. Nelle comunità spontaneamente sviluppatesi, la psiche ha cercato e creato le condizioni per la convivenza al fine di condividere luoghi, riti, credenze, immaginazioni, tradizioni, storie, oggetti, ritmi: per stare insieme (l’antica toponomastica della città di Palermo, ancora in buona parte esistente – via dei chiavettieri, via calderai, via dei berrettai, ecc. – ci parla di una identità dei luoghi e nei luoghi che non era esclusiva, ma al contrario costituiva di una rete di attività interconnesse, auto ed etero-riconosciute).
La disattenzione, o il disinteresse, verso i “bisogni d’anima” dell’individuo, spingono le persone verso una ricerca di soddisfacimento o di fuga dalle frustrazioni inconsce, che trova sovente rifugio in soluzioni psicologicamente povere, stranianti e individualistiche (diffidenza, ritiro sociale, aggressività, apparenza, ecc.). Il rischio che si cela dietro tali reazioni è un sentimento di rabbia e vendetta impersonale dell’individuo contro la città, vissuta come estranea, cieca, sadica e ostile: azioni violente, individuali o di clan, introversione patologica, rancore indifferenziato…). Tali patologie individuali, che si diffondono anche a livello sociale e sistemico, possono essere contenute e mitigate solo rimaneggiando la comunità di riferimento dell’individuo: la città è un organismo con un’anima che, se recuperata, può conseguentemente salvare l’apporto d’anima che ogni individuo può trasmette alla collettività: si instaura un circolo virtuoso, in cui l’individuo influenza la città, che influenza l’individuo…
Per concludere, occorre rimodulare l’approccio al sociale e all’individuo degli operatori pubblici, intesi come politici, ma anche come professionisti della salute privata e sociale: ciò che serve è una “terapia dell’anima”. Ogni intervento in favore della psiche sociale dell’individuo può accrescere la propria efficacia se, in parallelo, si attuano analoghi interventi terapeutici nel mondo di riferimento esterno all’individuo, restituendogli armonia, bellezza, sicurezza, decoro, accoglienza, solidarietà… Ogni azione messa in atto a tali fini non è solo auspicabile, ma salvifica, e consentirà ad ogni cittadino – potenzialmente a tutti i cittadini – di vivere in una comunità, in un luogo dell’anima sufficientemente buono, in cui sentirsi ed essere realmente responsabile delle sorti della propria vita e della vita degli altri, affinché la Bellezza del mondo risuoni della Bellezza dell’Uomo.