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L’inconscio e la Terra: le pietre sacre e la scoperta del Sè

Questo contributo si apre con due parole, entrambe gravide di suggestioni: emozione e movimento. Le emozioni sono il motore della vita: sono gli incontri con i pazienti, con le persone per noi significative, sono gli scambi di sguardi. I movimenti, invece, sono grossolanamente catalogabili in due tipi: ci sono i movimenti trasversali, quelli che ci fanno cambiare lavoro, ci fanno sostituire i vestiti o cambiare città. Ci sono, poi, i movimenti longitudinali, che ci fanno nascere, crescere, imparare, invecchiare, ammalare, guarire, morire e, chissà, forse anche rinascere. Attraverso i simboli, le metafore, ma anche attraverso fatti concreti, fisici e psichici, l’uomo “sente”, più che capisce, che a un certo momento della propria vita, la terra sulla quale ha vissuto con più o meno sicurezza, il conscio, la coscienza, è solo la minima parte, la superficie di qualcosa di molto più profondo, più complesso, più sconosciuto, ma anche più affascinante. È grazie al mito che ritroviamo, dentro e intorno all’uomo, racconti e leggende che parlano di regioni sotterranee, di coordinate infere, dei misteri delle pietre che infondono sapienza, di rocce che partoriscono uomini e di caverne che rimandano a figure come Mithra, Zeus, Mercurio e Gesù. I popoli mediterranei – e sommamente quello siciliano per particolare “allocazione” geologica e psichica – hanno, a seconda dei punti di vista, un problema, o forse un’opportunità in più rispetto ad altre genti: ogni tanto il sottosuolo, l’inconscio delle nostre regioni psichiche, si fa sentire e fa sentire la sua incessante irrequietezza, che si manifesta sotto forma di terremoti, di vulcani attivi, o di isole che emergono e scompaiono nel mare, dando vita, tra l’altro, anche a leggende e a uomini leggendari: «Ma dal senso tellurico della sua instabilità insulare di frammento che si avvicina pericolosamente al continente africano, dalla precarietà della sua collocazione geografica, nasce la leggenda di Colapesce che regge in fondo al mare una delle sue colonne incriminate» (Fiume, 2013, pp.12-13). Per quanto ci si illuda che il nostro Essere, la nostra esistenza, siano concluse nella orizzontalità della superficie, qualcosa, ad un certo momento, si fa sentire e rivela la dimensione verticale, che non è più soltanto verso l’alto, verso il Cielo, ma è diretta verso il nucleo dell’Individuo. Ecco la sfida che ci lancia l’inconscio, il nostro inconscio personale e l’inconscio collettivo, entrambi fatti di buio, di labirinti, di non-regole e di incertezze. La scoperta dell’inconscio, il viaggio verso l’inconscio, è un viaggio iniziatico, e quando si affronta tale viaggio occorre spogliarsi e immergersi in una dimensione altra. All’immersione, però, deve seguire la riemersione, senza la quale l’individuo, rimanendo risucchiato e avviluppato negli oscuri pantani dell’inconscio, rischia di smarrire il contatto con il mondo di superficie, un mondo diurno e fatto di luce, di regole, di convenzioni e di relazioni sociali; la perdita o la rinuncia drastica e definitiva al mondo di superficie esporrebbe l’individuo a problematiche di tipo più invasivo e disturbante. La scoperta, l’immersione e l’indagine dell’inconscio e nell’inconscio è paragonabile ad un viaggio dopo il quale nulla sarà più come prima, poiché un viaggio di tal genere, affrontato e compiuto con la necessaria consapevolezza, trasforma l’uomo nel profondo, illuminandone l’esistenza di luce, di sapienza e di conoscenza del Sé.  Parliamo, allora, di una rinascita dell’individuo, che può essere una renovatio, una rinnovazione, se coinvolge alcune parti della personalità, lasciando quasi intatta l’essenza stessa dell’individuo; oppure può trattarsi di una rinascita totale, se si verifica una trasformazione totale. Il primo stadio del viaggio interiore è quello in cui, nella concezione ermetica, le forze abbandonano l’individuo – fase della decomposizione, della nigredo, in cui si passa da uno stato individuato ad uno non-individuato – e nel quale il sottile si libera dello spesso; possiamo dire che l’Io si offre ad una morte iniziatica. Tale stadio è seguito da quello in cui la persona, diretta al centro della terra, del Sé, ritrova le radici della propria soggettività. È la fase dell’albedo, priva di corporeità, secondo gli alchimisti piena del proprio vuoto; solo superando questo stadio lo spirito può affrontare la risalita, che sarà un cammino oscuro e pieno di ostacoli, ma che condurrà l’individuo in alto, verso una Luce rinnovata o, secondo la terminologia junghiana, verso l’individuazione. È questa la fase della rubedo, in cui si ha la materializzazione dello Spirito. È un viatico di rinuncia al certo, al collaudato, di ricongiunzione e di ricostituzione del simbolo e di tutti gli elementi psichici che derivano dall’ambiente esterno e dal mondo interno all’individuo. Avviene la fusione dell’Anima e nell’Anima, in cui il punto matematico centrale di ogni essere si sovrappone all’infinito O. Circa questa ricongiunzione psichica degli elementi subterranei, superficiali e aerei, al tempo di Platone avvenne un’importante scoperta astronomica: i pianeti – la parola greca significa “stella errante” – erano sempre stati ritenuti corpi celesti che, a differenza degli altri, vagavano senza mèta. Un membro dell’Accademia platonica, Filippo di Opunte, osservò che i Pianeti si muovevano attorno alla Terra con rivoluzioni regolari. Nel cielo quindi, regnavano la legge e l’ordine e gli astri erano animati e percorrevano orbite regolari per volontà e giudizio proprio, poiché erano “divinità visibili”. Nel Timeo Platone espose le tesi della combinazione dell’immutabile con il mutevole; e sempre nel Timeo, e così pure nel Fedro, Platone mise la teoria dell’anima in relazione con gli astri: l’anima proviene dal cielo delle stesse fisse, dalla sfera delle cose eterne; di lì precipita in quella delle cose mutevoli, finché, giunta sulla Terra, entra in un corpo dal quale si libererà dopo la morte, per ascendere nuovamente alle stelle immortali. In questo breve passaggio inizia ad emergere questo “bisogno” dell’uomo, già testimoniato per esempio da Eraclito (“la via verso l’alto e la via verso il basso sono una sola e la stessa”), di trovare una continuità, una congiunzione tra il sottosuolo, la Terra ed il Cielo. Molte popolazioni, tra cui i Persiani, ritenevano che il cielo fosse di pietra e usavano per i concetti di “cielo” e “pietra” lo stesso termine, ásman. Esiste una parola greca, akmon, che ha molto verosimilmente la stessa origine di ásman e che significa tanto “Cielo” quanto “incudine di pietra”. I frammenti di meteoriti caduti sulla Terra indussero i primi uomini a credere che il cielo fosse di pietra ed ecco il motivo per cui gli antichi immaginavano l’universo come una gigantesca caverna e, di conseguenza, le grotte in cui si riunivano, per esempio, i seguaci di Mithra e dove eseguivano i loro riti, venivano considerate come riproduzioni del cosmo. La ricerca del nucleo dell’Essere rappresenta il desiderio dell’Uomo di ritorno al centro originale e primordiale; è quello che nella letteratura alchemica viene definito come “regressus ad uterum”, ed è nel Centro che abita il Mistero, l’idea del divino, dell’Energia e dell’Imponderabile, da cui tutto parte e a cui tutto torna, in un percorso di “cura dell’Anima” che conduca alla presa di coscienza del nostro Sé, verso l’individuazione. Ci sono alcuni fenomeni, alcuni oggetti psichici con i quali, durante la nostra vita, ci confrontiamo quasi quotidianamente e che con la loro valenza simbolica e archetipica segnano e strutturano il nostro cammino di vita: uno degli oggetti psichici più universali è il buio che fin da piccoli è per l’uomo motivo di paura, di senso di vulnerabilità, ma che contiene una indicibile valenza seduttiva. È nel buio del sottosuolo, nell’inconscio, che ri-cerchiamo le nostre parti meno visibili, a volte, forse, meno gloriose e luminose, le nostre Ombre, ma che sono la componente più prossima al nucleo del nostro Sè, in cui risiedono quelle nostre parti che, a volte sorprendendoci, guidano silenziosamente e sottilmente le nostre scelte, i nostri incontri, le nostre paure, i nostri desideri, il nostro lavoro, il nostro essere-nel-mondo. Nell’antica Grecia i sacerdoti, seguaci di Asclepio (in latino, Esculapio), interpretavano i sogni delle persone, gli incubi, dando vita alla cosiddetta pratica dell’incubazione: la parola deriva da in-cubus, poiché i dormienti, dopo alcuni riti di abluzione e di “pulizia” dell’Anima, si coricavano su pietre di forma cubica poste al centro di alcuni templi, appunto dedicati al semi-dio, secondo Omero, figlio di Apollo e introdotto all’arte della medicina dal centauro Chirone. I sognatori, al loro risveglio, raccontavano i sogni ai sacerdoti affinché questi li interpretassero, così da dare indicazioni alla persona stessa o, talvolta, all’intera comunità (oniromanzia). Per i Romani l’incubus era uno spirito preposto alla custodia di beni preziosi sepolti sottoterra, mentre nel Medioevo l’incubus assunse le sembianze di uno spirito mostruoso che sorprendeva le donne di notte, opprimendone il petto con il proprio peso o abusando di loro. La Pietra cubica, quindi, aveva una funzione significativa, quasi catalizzatrice. Il viatico verso i meandri del sottosuolo, nel regno del Sogno, nell’inconscio, ci conduce in un luogo psichico privo di temporalità, equiparabile a quello che gli alchimisti definivano vas bene clausum, cioè un sistema isolato ed ermeticamente chiuso così da proteggere la parte buona e germinatrice del mondo vivente e della psiche. Priva di luce solare, di convenzioni e ritmi sociali, qualunque nozione di tempo può essere dilatata a dismisura o venir ridotta ad una quantità puntiforme. La discesa nel Buio espone all’abbandono di certe abitudini, di certe regole e certe “sicurezze” garantite dalla Luce della superficie, dal chiarore luminoso ed esposto della coscienza e dalla “concretezza” della terra sulla quale viviamo. Avventurarsi nel Buio, nella regione dell’inconscio, è come offrirsi un nuovo punto di vista, una nuova “possibilità di esistenza” ovvero, in termini religiosi, di una nuova grazia; questo viaggio, però, questa rinuncia, se pur transitoria, della Luce solare, ha insito il rischio della perdita di controllo e della con-fusione del limite: la follia. È questo un tema estremamente importante nella psicoterapia, poiché ripropone il tema essenziale dell’equilibrio e dell’aiuto che il terapeuta deve offrire al paziente affinché questo trovi la propria via, con prudenza ma anche con coraggio, il coraggio necessario a superare quella certa impasse, causa del malessere o del disturbo. L’incontro tra il paziente e il terapeuta è come una contesa in cui l’apparente equilibrio tra i due viene interrotto dalla domanda che il paziente pone; la dinamica che si instaura è simile alla contesa dello judo: la parola judo è composta dall’ideogramma “JU” che può essere tradotto con “morbido”, l’ideogramma “DO” raffigura l’allievo accompagnato dal maestro, ma che viene tradotto filosoficamente come “sentiero” o come “via di miglioramento”. Lo judo, quindi, esprime la “via della dolcezza”. L’allievo, il paziente, rivolge la domanda, il “problema”, al terapeuta, al “maestro”, che aspetta l’”attacco”, aspetta la “perturbazione”, il “disturbo”. Il terapeuta non si oppone all’attacco, ma lo accoglie e lo asseconda, per condurlo alla logica conclusione e liberarlo da quella che è, probabilmente, una falsa premessa sociale, che rischia di allontanare la persona dal proprio Sé. Ciò che avviluppa e confonde l’uomo sono, sovente, le norme e le richieste sociali che spesso confliggono con i sentimenti e le istanze individuali. Il compito della psicoterapia è quello di permettere la riconciliazione tra i dettami che arrivano dalla società e la ricerca della individuazione, salvaguardando così l’integrità della persona. L’Isola L’isola, psicologicamente, è un ambiente extra-mondano, circondato dall’incessante inquietudine dell’elemento liquido che la avvolge, e per raggiungerla è necessario confrontarsi con l’acqua, che può essere imprevedibile e pericolosa. Non si giunge sull’isola per caso, perché l’isola è una mèta “esatta”, l’isola è genius loci: l’approdo sull’isola è consentito a chi accetta il rischio o dispone di talento per arrivarci, a patto di non cadere nella hybris: in termini alchemici, accede sull’isola chi è in grazia di Dio, poiché l’Isola è un tèmenos. La sacralità dell’isola, ancor più se di origine vulcanica, rende sacro chi vi approda incolume. Approdare su un’isola significa abbandonare un luogo protetto per affidarsi al mare-utero che circonda e contiene l’isola, sulla quale, solitamente sul punto sommitale, vi è il cratere, l’omphalos, termine che nell’antichità, oltre che l’ombelico, contraddistingueva una pietra cui si attribuisse un significato religioso, come il semitico Beith-el, “casa di Dio”. L’emersione di un’isola ha bisogno dell’intervento di un elemento cardine, fondamentale: ha bisogno del Fuoco ed è dall’azione combinata tra l’Acqua ed il Fuoco che può materializzarsi l’Isola, la cui permanenza nella regione superficiale e aerea, la cui “resistenza”, però, dipendono dalla saldezza dei legami che devono sfidare il gioco di forze loro contrapposte esercitate dal Vento, quindi dall’Aria, e soprattutto dall’azione dirompente del mare-inconscio. Grazie all’azione combinata dell’Acqua, del Fuoco e dell’Aria, la Terra, prima dislocata nelle regioni ctonie del Sogno, erompe alla regione superficiale della consapevolezza, mutando il proprio stato da una condizione magmatica, indifferenziata, alla solidità della consistenza della lava emersa, concretizzando l’isola e, psicologicamente, concretizzando la coscienza. Il Vulcano-Isola che emerge, quindi, è il Sé che si manifesta e che si oppone a quella che Neumann definiva “gravitazione psichica”, che è la tendenza centripeta dell’Io a ritornare alla originale dislocazione psichica inconscia. Il fuoco e il tondo Il fuoco è un elemento di rottura e di instabilità, a cui l’uomo si è affidato per riceverne calore e protezione, ma a cui ha anche affidato la propria speranza affinché facesse da tramite alla elevazione delle anime dei defunti, per esempio tramite la cremazione del corpo. Il prodotto del fuoco è la cenere, materia inanimata che, però, protegge la brace dalla estinzione e che posta sul capo del penitente ne sottolinea la sottomissione alla autorità divina. Il fuoco trasforma in modo irreversibile ma è nel contempo matrice di vita. Nel simbolismo geometrico la ricerca dell’archetipo del Centro è per l’uomo un bisogno primordiale poiché il punto, insieme al cerchio e alla sfera, è una figura “naturale”. La prima immagine che il bambino concepisce di sé è un’immagine rotonda. La figura del cerchio si radica profondamente nella mente proprio perché ha a che fare con il primo apprendimento mentale del sé corporeo e dei suoi confini. Appena il bambino è capace di tracciare sulla carta un segno che vada al di là del semplice scarabocchio, la prima espressione creativa che esegue il bambino è un tondo. (Eugenio Gaddini, L’immaginario: psicopatologia e psicoterapia, p.18). Per approssimarsi al nucleo dell’individuo occorre farlo in modo “ingenuo”, cioè in modo naturale e libero (dal latino ingèenus, che indicava chi era nato nello stesso luogo in cui viveva e che aveva i natali certi, al contrario degli schiavi). Ricercare il Sé in modo ingenuo significa predisporsi ad un viaggio interiore privi di sovrastrutture intellettuali in cui la componente naturale è superiore a quella culturale, ed il motivo è semplice: la ragione ha la necessità di oggettivare a qualunque costo, così da porre una separazione tra sé e l’altro-da-sé, tra l’osservatore e l’osservato: per scoprire e conoscere il proprio Sé, invece, occorre “essere Sé”. In ciò, oltre che la filosofia orientale, ci è d’aiuto l’esempio mitologico di Mercurio, che è un’entità sia fisica sia spirituale e rappresenta il processo di trasformazione di ciò che è inferiore e fisico in ciò che è superiore, spirituale, e viceversa. Mercurio ha un’altra importante e unica caratteristica, che lo distingue dagli altri dèi: è l’unica divinità che ha la capacità di far compiere il percorso inverso alle anime dei defunti, sottraendole al regno dell’Ade (H.Dieckmann, Fiabe e simboli, p.57-58). Il vulcano e il cratere Il vulcano e il cratere rappresentano il punto sensibile, il luogo di rottura, il portale attraverso cui può avvenire il passaggio, la comunicazione tra il sottosuolo, l’inconscio, e le regioni emerse, la coscienza. Il cratere, bocca sommitale dei vulcani, è il varco d’ingresso al regno di Ade e simboleggia un passaggio; è un luogo di trasformazione, di rinascita e di illuminazione. Per rimanere nella simbologia associata al cratere, esso è assimilabile alla coppa sacrificale, che riassume in sé il simbolo di “Centro del Mondo” o “Cuore del mondo”, in cui l’immortalità elegge la propria dimora. In alcune fonti letterarie, come il Talmud o lo Zohar, il “cuore della Terra” corrisponde al Pardes, in ebraico “frutteto”. Il cratere e il vaso rappresentano un luogo tabù, fisico ma anche psichico, attraverso cui è possibile penetrare la crosta terrestre e il grembo della Madre-Terra, immergendosi nella Madre (mater), che però è anche materia. In quanto luogo di passaggio, il cratere lo possiamo riconoscere come un legame, un nesso tra due dimensioni insieme prossime e distanti l’una dall’altra, la coscienza e l’inconscio. La parola “nesso” ha varie ipotesi etimologiche: quella a noi più prossima deriva dal latino nexus, che vuol dire “legare insieme”, ma un termine con una assonanza prossima lo troviamo anche nell’antico scandinavo nista, che vuol dire “attaccare” o “fermare”, oppure nell’antico irlandese nasc, che vuol dire “anello”, mentre nel sanscrito troviamo la parola composta nah-yati, che vuol dire “legare”. Dalla mitologia greca ci giunge il Centauro Nesso, che era il figlio di Issione e di Nefele; Nesso era il traghettatore del fiume Eveno. Quando Eracle si presentò a Nesso per passare il fiume insieme a sua moglie Deianira, Nesso si rifiutò di traghettarli insieme, dicendo che avrebbe potuto trasportarli uno alla volta. Quando Nesso fu solo con Deianira tentò di violentarla ma Eracle, attirato dalle urla della moglie, scagliò contro Nesso una freccia, colpendolo al cuore e ferendolo a morte. Nesso, prima di spirare, confidò a Deianira che se avesse intriso un abito con il seme da egli emesso, con il sangue della sua ferita e, secondo una versione del mito, con dell’olio d’oliva, lei avrebbe ottenuto l’amore eterno di Eracle, se gli avesse fatto indossare la veste così imbevuta di questo intruglio. Naturalmente questo era un ultimo, sadico raggiro di Nesso, il quale sapeva che la freccia con cui Eracle lo aveva colpito a morte era contaminata dal veleno: con quella freccia, infatti, Eracle, con la sua seconda fatica, aveva ucciso l’Idra di Lerna, un mostro dalle nove teste, il cui sangue è sommamente velenoso. Quando Eracle, ignaro, dopo un po’ di tempo, indossò la veste intrisa del sangue e di tutto il resto, fattagli pervenire dalla inconsapevole Deianira, il veleno che era contenuto si sciolse al calore e corrose la pelle di Eracle che, per la grande sofferenza e per l’idea del tradimento della (forse) innocente Deianira, si lasciò bruciare su di una pira, raggiungendo così l’immortalità. La povera Deianira, invece, decise di uccidersi per aver cagionato l’orribile morte di Eracle impiccandosi o, secondo altre versioni, trapassandosi con una spada sul letto coniugale. Perché questa digressione mitologica sul nesso? Perché la discesa nel sottosuolo, nell’inconscio, non si tramuti in caduta rovinosa, in precipitazione verso la follia, perdendosi nella follia. La follia, dal punto di vista mitologico, non è solo perdita della coscienza e dello spirito, ma equivale anche a una”confusione” dello spirito. La follia, insieme alla morte, alla malattia, al dolore e all’invecchiamento, è un sintomo trasformativo che può condurre alla perdita del sé e alla perdita del riconoscimento del sé o alla fuoriuscita della persona dai confini del proprio sé. L’allontanamento o la perdita del controllo del mondo della luce diurna, della coscienza, può comportare il terrore della disgregazione psichica; la perdita dei consueti punti di riferimento superficiali e “logici”, infatti, per l’individuo non sufficientemente “forte” e aperto al linguaggio a-logico dell’inconscio, rischia di condurlo al terrore e a quello che, dalla mitologia e dal dio Pan, viene definito timor panico. È questa una delle più drammatiche manifestazioni dell’esordio psicotico, in cui si ha la perdita dell’orientamento, nel senso di indifferenziazione della direzione del pensiero. La persona non distingue un pensiero dall’altro e tutto ha il valore di tutto e ogni percetto è psichicamente identico a qualunque altro, come se la figura digradasse in uno sfondo infinito. La paura unita alla attrazione verso i crateri vulcanici testimoniano una ambivalente seduzione magica: in questi luoghi avviene il passaggio degli elementi subliminali che, dallo stato magmatico di cui è costituito l’inconscio, emergono in Ge. È qui, sulla superficie, che avviene il contagio dell’aria che causa la solidificazione degli elementi fluidi in sostanza concreta: la coscienza. L’uomo, però, ha oltrepassato questo livello e, unico tra gli animali ad avere una conformazione fisica assolutamente verticale, ha proiettato il proprio Spirito sopra la superficie di Ge: si supera, così, il concetto di divinità ctonia, legata al culto della Madre-Terra, per pervenire ad un pantheon di esseri super-umani e trascendenti. Abbiamo detto che i Vulcani sono il prodotto dello scontro tra l’Acqua ed il Fuoco; potremmo dire che il Vulcano è quasi un paradosso, è un tertium non datur; abbiamo già prima accennato alla natura ambigua del fuoco e di come possa essere insieme sorgente di vita e causa di morte e distruzione; anche l’acqua, però, ha nella sua struttura psichica insieme componenti di vita e di morte: se proviamo a leggere psichicamente ciò che è accaduto nel 2011 in Giappone o nel 2004 in Indonesia, sono questi fatti che rievocano dal profondo dell’uomo, dal suo inconscio, antiche paure legate al fuoco e all’acqua e di come alcune leggende e miti parlino della fine del mondo a causa del fuoco e dell’acqua. Una prima, sintetica lettura dello tsunami, in termini di risonanza per l’uomo, è quella della riappropriazione da parte dell’acqua-inconscio di regioni della psiche precedentemente conquistate dalla coscienza-terra. La parola tèmenos deriva da un termine indoeuropeo, tem-lo, che vuol dire “tagliare”; essa definiva una forma di esproprio, vòlto a riservare una parte di terreno ai capi o, più spesso, per destinarlo a luogo di culto; da tem-lo deriva il latino templum. La figura che compone e circoscrive il tèmenos è il mandala, termine derivato dal sanscrito manda (essenza) più la particella la (conoscere), che ha la funzione di contenere lo spazio sacro e separarlo da quello profano. L’ideazione, la realizzazione e l’uso dello spazio mandalico rappresentano la concezione e la costituzione del Sè. Queste qualità consentono all’individuo di riconoscere la totalità psichica, proteggendo la propria psiche dal rischio della dispersione, verso una ricostituzione dell’armonia con se stessi e con l’universo, in cui la nostra componente razionale, la consapevolezza, compone l’unità dell’Essere con l’inconscio, al quale la coscienza dà la concretezza del vivere quotidiano. Immagine, immaginazione e sogno Emergere dal centro della terra è, dunque, un percorso di crescita, di trasformazione, di conoscenza, di affinamento ma anche di liberazione, come l’uscita dal labirinto, la cui struttura capricciosa, ambigua, incerta lo rende ideale protettore psichico del Centro, nel senso che chi ne accetta la sfida sa che, senza i giusti “meriti”, rischia di non giungere alla sua fine e venirne ricacciato fuori o, peggio ancora, rimanerne per sempre avvolto dalle sue spire. La fuoriuscita dalle regioni ctonie è un’ascensione che dal sottosuolo conduce alla terra e da questa all’alto, che simboleggia la capacità di maturare, attraverso l’elevazione, il distacco necessario per tornare a essere Uno con il Tutto, l’Unus Mundus, nel linguaggio alchemico è la formula greca en to pan, ma tutto ciò deve avvenire necessariamente attraverso la conquista della consapevolezza. Scriveva Jung: “Chi va verso sé stesso rischia l’incontro con sé stesso. Lo specchio non lusinga; mostra fedelmente ciò che in esso si riflette, e cioè il volto che non esponiamo mai al mondo perché lo veliamo per mezzo della Persona, la maschera dell’attore. Ma dietro la maschera c’è lo specchio da cui il vero volto traspare. È questa la prima prova di coraggio da affrontare sulla via interiore, una prova che basta a far desistere, spaventata, la maggior parte degli uomini. L’incontro con sé stessi è infatti una delle esperienze più sgradevoli, alle quali si sfugge proiettando tutto ciò che è negativo sul mondo che ci circonda. Chi è in condizione di vedere la propria Ombra e di sopportarne la conoscenza ha già assolto una piccola parte del compito: ha per lo meno fatto affiorare l’inconscio personale”. L’aspetto più frequentemente proposto o celebrato di quella che viene definita come “condizione postmoderna” è il suo affidarsi all’immagine di superficie. Nella cultura contemporanea siamo circondati da un veloce scorrere di immagini che si affastellano in un susseguirsi di notiziari, pubblicità e telefilm in cui non è più chiaro se quella immagine appartenga alla cosiddetta “realtà” oppure no, in una confusione semantica e iconica che richiede una corretta collocazione spazio-temporale, una traduzione e una interpretazione, fino al verificarsi di un vero “corto circuito psichico”, del paradosso in cui, secondo una ricerca, si è scoperto che fino circa agli 11 anni i bambini non sono pienamente consapevoli che le immagini e i messaggi verbali delle pubblicità sono costruiti per indurci all’acquisto di quei prodotti. Che vita e che “realtà” rappresentano, allora, le pubblicità secondo i bambini? Se, in tema di immagine, prendiamo ad esempio l’immagine fotografica, questa predomina nella determinazione della realtà, soprattutto per la psiche urbana contemporanea. Ciò è tanto vero che quelle immagini che iniziano come rappresentazione della realtà finiscono per essere delle rappresentazioni senza alcuna “realtà” dietro di esse. Il filosofo e sociologo francese Jean Baudrillard ha concettualizzato questa progressiva separazione dell’immagine dalla realtà e dal senso ad essa intrinseci secondo i seguenti quattro stadi: –              L’immagine è il rispecchiamento di una realtà più profonda –              L’immagine maschera e snatura una realtà profonda –              L’immagine maschera l’assenza di una realtà profonda –              L’immagine non ha alcuna relazione con la realtà, ma ne è il suo mero simulacro, intendendo per simulacro un’apparenza, un’immagine che, contrariamente all’icona, non rimanda ad altra realtà ad essa significativamente correlata. L’acqua Ogni rito iniziatico, attraverso cui l’individuo accede ad un superiore livello di conoscenza, prevede una prova dell’Acqua, la quale libera l’iniziato dall’ignoranza, dall’incoscienza o dal peccato. L’acqua contiene la memoria di ogni sostanza organica e inorganica. È nell’acqua che ogni trasformazione avviene (l’acqua come contenitore-utero che contiene, protegge e nutre); ma ciò che essa deve mantenere, dopo avere innescato qualunque processo fisico o psichico, è la propria struttura, la propria “identità” e la propria memoria: come in un ideale moto uroborico, alla fine del processo, deve tornare ad essere sé stessa. L’acqua è un oggetto psichico trasversale e ubiquo ed i sogni di tema acquatico sono sempre sogni trasversali e trasformativi. L’acqua, però, ha una particolare regione o pellicola superficiale: solo superando questa pellicola, questa zona di confine tra la parte aerea e il sottofondo, si può davvero penetrare in un’altra dimensione in cui le coordinate spazio-geografiche e psichiche mutano: da un’idea di spostamento che ha l’uomo di aderenza o scivolamento gravitazionale grazie a cui cammina sul suolo terrestre, ecco che inoltrarsi all’interno dell’elemento liquido amplia a dismisura le traiettorie possibili: si passa dal piano alla sfera. Il cambio di paradigma equivale al passaggio dal principio di realtà al principio di piacere. L’acqua, come l’inconscio, è anch’essa un elemento vertiginoso. Per concludere, crediamo che affrontare e percorrere la “via” dell’inconscio significhi approssimarsi al proprio Centro di Vita e al proprio avvenire attraverso la pienezza del presente che è, e non potrebbe essere altrimenti, uguale e diverso da quello di ogni altro uomo, alla ricerca della ricomposizione del proprio Essere.

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