Giochi di memoria. Pensieri privati su “Nuovo Cinema Paradiso”
«È necessario che una storia sia realmente accaduta
per essere vera?
Le storie davvero importanti, per lo più,
non riguardano cose realmente accadute:
sono vere nel presente, non nel passato».
[G.Bateson, M.C.Bateson, Dove gli angeli esitano, Adelphi, 1989, p.59]
Scrivere di “Nuovo Cinema Paradiso” rappresenta una sollecitazione psichica diversa da tutte le altre, almeno per me: è una proiezione in senso fisico, cinematografico e in senso psicologico e in quanto tale ha stimolato e continua a stimolare la mia curiosità cinefila e professionale. Il cinema è una formidabile fucina di fatti d’anima, cui l’uomo ha, sotto diverse forme, affidato i propri pensieri, i propri sogni, le proprie paure, che iniziano almeno dal mito della caverna di Platone per arrivare ai giorni nostri. La diversità, per me, di scrivere su questo film rispetto ad altri sta nell’ambientazione, nello sfondo, poiché, come è generalmente noto, la parte più sostanziosa della pellicola di Giuseppe Tornatore fu girata nel paese di Palazzo Adriano e qui, almeno personalmente, inizia l’anomalia. Palazzo Adriano è, per me, “il Paese”, in cui mio padre e i suoi genitori nacquero e vissero la loro quotidianità. Riguardo a mio padre questo è vero solo fino ad una fase della sua vita, poiché lui lasciò “Palazzo” a quattordici anni, in piena adolescenza, nell’anno in cui la Seconda Guerra Mondiale stava per diventare una drammatica faccenda anche italiana. Le mie vacanze estive infantili si svolsero a Palazzo Adriano, dove le giornate iniziavano presto e si concludevano tardi, piene di cose da fare, di corse in lungo e in largo per le stradine scoscese ma che, inevitabilmente, “costringevano” ad attraversare la Piazza (magari con la mia piccola mano nella grande mano di mio padre), al centro della quale vi era la fontana di pietra dalla cui acqua fresca dissetarsi; questo, per mio padre, era un vero, inconsapevole rito. La fontana e la sua collocazione più o meno baricentrica la elevano alla funzione di ombelico, che per i Greci era l’Omphalos, che in origine era una pietra di forma conica posta nel santuario di Delfi. L’Omphalos era il centro del mondo, il punto ove, secondo l’Enciclopedia delle Religioni, le diverse modalità dell’essere si incontrano; il luogo dove si rende possibile la comunicazione e il passaggio. La Fontana, quindi, che nel film ha il ruolo equilibratore e attorno alla quale si svolgono le vicende umane e davanti alla quale vi è il Cinema, è il silenzioso e immobile medium, l’oggetto fisico e psichico che, con la sua presenza catalizzatrice, consente lo svolgersi del tempo; in più, alla Fontana potremmo riconoscere il ruolo di testimone, nel cui suffisso latino -monium è insito il senso del compito. Devo scrivere del film, però, con una insieme timida e arrogante libertà che mi concedo, lasciando scivolare le immagini universali della pellicola, a beneficio di tutti, con le mie personali immagini intrise della mia memoria individuale, che si intrecciano inevitabilmente con il film, creando uno sfasamento spazio-temporale tra figura e sfondo. Sì, “Nuovo Cinema Paradiso” è un inno alla Memoria; è una apologia della Memoria, cui sommessamente associo la mia personale memoria, fatta di segni e di sensi. Il primo segno è, appunto, la pietra della Fontana, ma è anche la pietra miliare, il “chilometro zero”, quel piccolo parallelepipedo bianco e nero posto alla base della scalinata della chiesa greca. La Fontana del Paese ha una forma ottagonale; nulla accade per caso e l’idea che l’otto, simbolo e segno universale che parla di infinito, faccia da perno silente, immoto eppure vitalissimo alla trama, mi sembra un incoraggiante viatico per lasciarmi percorrere dalla storia di Totò, che è un po’ la storia di chiunque abbia vissuto il proprio luogo natìo come una meravigliosa e odiosa prigione alla quale poter riconoscere e confessare il proprio amore soltanto dopo che ci si è allontanati da essa. Totò ci sta bene in Paese; in fondo ha quasi tutto: ha la libertà fisica e immaginativa (per quanto la madre, non comprendendola, provi invano a limitarla), ha gli amici, la scuola, la natura, lo spazio e la vitale curiosità della fanciullezza; in più, ha il Cinema e Alfredo. È in quel quasi, però, che risiede il bisogno di altro e di altrove: una vita apparentemente piena. Piena di tutto, è come una soluzione satura: è impossibile aggiungere null’altro se viene superato il limite massimo della saturazione. Occorrono spazi vuoti, occorre il senso della mancanza, nella vita di ognuno di noi, per consentirci, o costringerci, al movimento da un luogo all’altro. Qualcosa, dicevamo, manca a Totò: è la figura del padre, più che il vero padre; non è casuale che il rammarico che prova Totò per l’assenza del genitore, inghiottito nelle inimmaginabili e drammatiche voragini belliche della remotissima Russia (confesserà Totò alla madre che lui il padre non lo ricorda più), è verso l’idea del padre (di cui conserva la foto nella scatola degli scampoli di pellicole sottratte ad Alfredo), più che la fisicità paterna, evocata dalle figure mitiche dei grandi attori americani, rappresentate sulle locandine dei film. Il lieve sorriso appena accennato di Totò, quando insieme alla madre apprende della morte certa del padre in Russia, è rivelatore di una “verità” di cui egli soltanto è depositario: ricondurre e sovrapporre l’idea del padre con le immagini dei divi di Hollywood è un modo inconscio per donare l’immortalità al genitore perduto (i termini vedere e idea condividono l’etimologia: id/eidon=vedere, da cui il latino videre). Alfredo, il burbero, ignorante, saggio, protettivo proiezionista del “Cinema Paradiso”, assurge al ruolo di figura sostitutiva paterna per Totò, per quanto ambivalente; è Alfredo, infatti, a metterlo in guardia dall’accontentarsi di una vita grama (Totò vorrebbe ripercorrere lo stesso mestiere di Alfredo, mentre questi lo sprona a studiare per avere più opportunità nella vita, soprattutto e indispensabilmente lontano dal Paese), ma nel contempo è sempre Alfredo, con il suo esempio e il suo “mestiere”, ad accendere in Totò la passione per il cinema. In alcune analisi del film la figura di Alfredo, divenuto cieco dopo l’incendio del Cinema, è stata paragonata all’indovino Tiresia; tale lettura, però, pur condividendola nelle linee generali, mi conduce più in particolare al Tiresia narrato nell’Odissea: in tale poema, infatti, sarà il suo spirito ad indicare ad Odisseo la via del ritorno:«Divino Laerzìade, ingegnoso Odisseo,
perché infelice, lasciando la luce del sole,
venisti a vedere i morti e questo lugubre luogo?»
Una delle ipotesi riportate da Apollodoro nella sua Biblioteca attribuisce la causa della cecità di Tiresia alla visione della nudità di Atena; se mi si permette un azzardato paragone, è Alfredo-Tiresia che custodisce i fotogrammi che immortalano proprio le parti più sensuali e scabrose delle pellicole proiettate al Cinema Paradiso, quelle dei baci tagliati. Su disposizione del parroco del Paese, questi frammenti di pellicola avrebbero dovuto essere distrutti, non visti da nessuno, ma sarà la loro raccolta il lascito testamentario più tangibile che Alfredo lascerà a Salvatore, che adesso è un uomo adulto, ricco, famoso, sufficientemente lontano – cioè sicuro – nello spazio e nel tempo e può guardare, soltanto lui, in una fredda e vuota sala di proiezione, ciò che, in passato, era precluso a tutti. Alfredo-Tiresia, da morto, ha svelato il tabù a Salvatore; egli, finalmente, ha l’occasione di aprire gli occhi offuscati dalle nebbie della adultità e vedere il gesto insieme liberatorio e intimo del bacio, dall’amichevole e familiare osculum, all’affettuoso e amorevole basium, fino al sensuale e passionale suavium. In cosa consiste la nostalgia di Salvatore? È nostalgia generica verso il passato o, più specificamente, è la nostalgia rivolta ad una età, uno stato d’animo, una condizione psicologica in cui Totò-Salvatore confrontano i propri presenti e i propri futuri: Totò vive la propria quotidianità come una continua ricerca di nuove opportunità e di stimoli. Possiamo dire che Totò costruiva inconsciamente il suo futuro e proprio tale inconscietà gli consentiva di vivere appieno il presente, apparentemente povero, cioè privo di “oggetti”. Il rischio di vivere in funzione del futuro sta proprio in questo: in attesa di qualcosa che – forse – sarà, perdiamo di vista il momento attuale. In Salvatore, di contro, c’è un presente ricco, direi gravido di “oggetti” (successo, ricchezza, fama), i quali, proprio a causa della loro “gravità”, tolgono spazio e respiro al presente di Salvatore. Egli si nega il ricordo, la cui presentificazione rischierebbe di sciogliere come neve al sole gli “oggetti” del presente che hanno saturato la sua vita presente, ma di una pienezza solo superficiale, priva di profondità. Ecco spiegata, quindi, la scelta di Salvatore di negarsi il “ritorno in Patria”, scegliendo di incontrare la madre, l’ultimo “oggetto psicologico” che lo connette a Totò, solo in un luogo emozionalmente sterile, nella sua attuale residenza, lontano dal Paese. Occorre, allora, un elemento forte, un “cambiamento catastrofico” secondo il senso attribuito a questa espressione dallo psicoanalista anglo-indiano Wilfred Bion: egli, infatti, attribuendo a tale concetto il senso dello scioglimento del nodo di una azione, ha inteso sottolineare, partendo dalla etimologia del termine “catastrofe”, il significato di sovvertimento (“rivoltare verso il basso”). La morte di Alfredo, forse l’unico avvenimento veramente “catastrofico” per la psiche di Salvatore e in grado di svegliarlo da uno stato di anestesia priva di emozioni, lo ha “liberato” dalla paura del fantasma di Totò, consentendogli di affrontare il dolore per la perdita di Alfredo ma anche, forse soprattutto, per la perdita di Totò, del suo sé-bambino: in breve, possiamo dire che la morte di Alfredo e il conseguente ritorno al Paese consentono a Totò e Salvatore di “ri-incontrarsi”. L’elaborazione del lutto per una persona o per una idea passa attraverso l’incontro profondo con quella persona o quella idea. “Rimettere piede” in Paese (nel significato letterale di calpestare, toccare la terra con i piedi) ha assunto per Salvatore il significato di potere “vedere” e “sentire” Totò nei suoi luoghi, tra le sue Pietre. La raccomandazione di Alfredo rivolta a Totò-Salvatore (è la fase tardo-adolescenziale del personaggio in cui coesistono entrambe le identità, passate e future) di non voltarsi indietro, allora, assume una valenza condizionata: “Non tornare finché io ci sarò”. Possiamo dire che il ritorno di Salvatore al Paese per l’ultimo saluto ad Alfredo è una specie di liberazione da inutili orpelli superficiali (la notorietà, una sessualità frammentaria e desolata e una paralizzante anedonia, testimoniata dalla maschera triste di Salvatore, contrapposta ad una incontenibile gioia di vivere concentrata negli occhi di Totò). Per riprendere e applicare alla narrativa del film una teoria e una immagine utilizzate dallo psicoanalista americano James Hillman, Totò rappresenta e nutre la “ghianda” di Salvatore, nel senso che nel bambino-Totò sono già contenuti tutti gli elementi che porteranno Salvatore a ritrovare sé stesso; il messaggio del film, però, è un invito a riconoscere il proprio passato, le proprie radici, affinché si “compia” l’individuo. È un percorso multicircolare: si parte da un punto – la propria infanzia, i luoghi, i visi della fanciullezza,… –, da cui si dipana un percorso, a volte lineare e “logico”, altre volte frastagliato e incerto, ma che ci porta da qualche parte, in qualche luogo; affinché questo “luogo” sia davvero il nostro luogo, però, occorre “sentire” emotivamente la linea continua che unisce questi due punti, come nel caso di Totò e Salvatore. Solo così l’uomo-Salvatore potrà desiderare, sognare, progettare un nuovo percorso, che sia individuativo e non un mero simulacro. Il Paese appare come una “terra promessa” in cui, però, non si può o non si deve tornare, pena la scomparsa della terra, dell’humus: la paura che il ritorno uccida il ricordo e con esso la nostra fanciullezza, la nostra età dell’oro. È di grande intensità il brevissimo dialogo che intercorre durante le esequie di Alfredo tra Salvatore e Spaccafico, il proprietario del nuovo Cinema Paradiso; questi si rivolge a Salvatore dandogli del lei. Alla sua rimostranza (“Perché mi dà del lei?”), Spaccafico replica dicendo che ormai Salvatore è una persona importante (“A una persona importante dare del tu è molto difficile)”. Salvatore ne è quasi mortificato, poiché non si sente “riconosciuto” come Totò, ma formalmente e freddamente circoscritto al “personaggio-Salvatore”. Spaccafico, allora, lo “libera” da tale simulacro, restituendogli la sua identità più vera attraverso la restituzione del suo “vero” nome (“Comunque, se tu ci tieni: Totò”). C’è una piccola folla di persone che, insieme a Salvatore, accompagnano Alfredo nel suo ultimo viaggio: c’è la moglie; la madre di Salvatore; Spaccafico; ed è soltanto con queste figure che Salvatore ha dei dialoghi. Al funerale sono presenti, tra le altre, alcune persone che ai tempi della giovinezza di Totò, tanti anni prima, vivevano in Paese e gravitavano intorno e dentro al Cinema, che ben conoscevano Totò e che per vari motivi frequentavano la sala: la allora giovane coppia, la cui relazione iniziò nella sala del Cinema; il fabbro, che si commuoveva alle scene più romantiche, recitandole a memoria; Ignazio (Leo Gullotta), il factotum un po’ tonto del cinematografo…: adesso sembrano fantasmi, così bianchi e distanti, silenziosi e impalpabili (dirà la madre a Salvatore: “Qui ci sono solo fantasmi”). Il saluto deferente che rivolgono a Salvatore è lieve, privo di contatto fisico; sembrano appartenere ad un altro mondo, al mondo dei morti, ad un mondo che non c’è più. Salvatore li riconosce, ma non li “sente”, forse ne ha quasi timore; accenna un impercettibile e imbarazzato saluto di risposta, ma che è destinato a rimanere ad uno stato larvale, almeno finché Salvatore “ritroverà” Totò. La scena iniziale in cui il protagonista adulto condivide il letto con una donna è ambientata in un ambiente freddo, anche cromaticamente, seppur opulento, ma privo di calore, di luce naturale, di un vero erotismo o di una sensualità partecipata (Salvatore si corica con gli abiti indossati durante il giorno, segno di mancanza di cura e intimità), contrapposto ad un contesto, quello della sua fanciullezza, in cui la fisicità è continuamente sollecitata da gesti, parole o contesti vitali). La “negazione erotica”, l’immobilità narcisistica del Salvatore adulto è una risposta inconscia ad un tempo pieno di slanci emotivi, di speranze (l’atteso ritorno del padre), di partecipazione, coralità, di spazi aperti (la piazza come agorà, come palcoscenico di umanità), di investimento nel futuro. La povertà del Paese è condita di desiderio; la ricchezza di Salvatore adulto è colma di disperazione (senza speranza, non c’è più nulla da desiderare). Ecco, allora, il senso della sceneggiatura del film, che si dipana come un racconto, con dei salti temporali che alternano quadri del passato a film del presente, con la differenza che le immagini del “come eravamo” sono palpitanti di suoni, colori, impregnati di luce e di una umanità ingenua, povera, “periferica”, eppure vitale nel suo “piccolo mondo antico”, contrapposta ad un presente senza memoria, privo di punti di riferimento certi, senza una “pietra miliare” da cui possano irradiarsi il mondo e la vita, un luogo dell’anima da cui partire, privo di una fontana a cui abbeverarsi e da cui, non visti, guardare sé stessi e il mondo. Per Salvatore il ritorno ai luoghi della sua infanzia equivale ad un ritorno alla luce e alla piena coscienza: l’eros di Totò, vitale e “legante”, si contrappone al thanatos di Salvatore, che separa, mortifica e taglia. La morte di Alfredo segna, dunque, per Salvatore la possibilità di accedere a quelle parti più nascoste e dolorose della sua anima con le quali riprendere un dialogo interrotto, ma senza il quale l’individuo non potrà mai pienamente intraprendere la strada per la propria individuazione. Una piccola nota personale: tra i personaggi che in vari momenti compaiono nel film c’è quello che potremmo definire “lo scemo del villaggio”. Palazzo Adriano aveva realmente il suo “scemo del villaggio”: Armando. Era un omino piccolino, dalla pelle scurissima, sdentato, un sorriso dolce e smarrito, e non parlava mai; non so se fosse muto o, semplicemente, non avesse le parole per raccontare il suo pensiero. Indossava quasi sempre un paio di enormi pantaloni blu di tela e scorrazzava per le vie del Paese, in attesa di qualcuno che gli donasse uno spezzone di sigaretta o che semplicemente gli rivolgesse un saluto. Ricordo nettamente i sentimenti contrastanti che provavo ogni volta che incontravo Armando, sul viale di ingresso al Paese; provavo una istintiva paura per quell’essere così diverso da tutti, così alieno nel suo silenzio e in quel suo sguardo distante da tutto e da tutti. Immaginavo che un giorno, preda di un raptus, potesse aggredirmi e picchiarmi, ferirmi, rapirmi o uccidermi; eppure, quando andavo in giro per le strade del Paese, desideravo incontrarlo, per guardarlo, non visto. “La Piazza è mia”, in fondo, era l’inconfessato desiderio di quel me-bambino per il quale tutto quel sole, tutti quegli spazi e quella umanità, erano gli ignari depositari di ciò che sarei diventato: una ghianda che diventa pioppo, larice, quercia, le cui radici hanno bisogno della propria acqua, della propria terra. Forse, con la presuntuosa immodestia degli anni, pochi, tanti, trascorsi in cerca del senso della vita, mi approssimo al senso di quella frase, capovolgendola con la accondiscendente libertà che si concede ai folli: “Io appartengo a quella Piazza”. La piazza: una delle scene finali del film racconta della definitiva demolizione del Cinema, per far posto ad un parcheggio; se da un lato la scomparsa fisica di un oggetto attribuisce allo stesso e ai significati che racchiude un’aura di eternità, dall’altro, la destinazione d’uso che nel film si vuol assegnare all’area (un parcheggio), simboleggia la decadenza simbolica dei luoghi e il loro non-senso (un parcheggio nel “vero” Paese di Palazzo Adriano, e non come viene ricostruito da Tornatore, assediato da auto e cartelloni pubblicitari, è un atto barbarico proprio nella sua inutilità). In fondo, in una realtà contemporanea che tende a stravolgere i panorami, rendendoli tutti uguali e “normalizzati” in tutti i luoghi del mondo, l’idea che il regista abbia dovuto, nel finale del film, artificiosamente “modernizzare” la Piazza, rimarcandone la sciatteria con brutti cartelloni pubblicitari, un distributore di carburante e tante macchine, dona al presente reale di Palazzo Adriano una forza straordinaria, in cui la memoria può trovare il suo sicuro rifugio. Qualcosa dentro di me, però, mi suggerisce che non potevo immaginare uno scritto su “Nuovo Cinema Paradiso” senza includere qualcos’altro che di mio si vivifica nel film; in fondo, deve esserci una ragione perché io, proprio questo Io e non quello di qualcun’altro, stia compiendo questa serie di azioni, il cui prodotto finale sarà questo breve scritto che, forse, qualcuno leggerà. È una azione psichica, spesso inconsapevole, che tutti attuiamo quando guardiamo un film; immettiamo parti di noi in forma di desideri, paure, rimorsi, speranze, risonanze, dissonanze… La casa del ricordo, la casa perduta, ammantata di connotati sacri, la preserviamo in un passato privo di temporalità, in cui nulla scorre, nulla avviene, nulla cambia; tutto è, forse a nostra insaputa, forse all’insaputa di tutto l’universo. Penso a quei racconti di fantascienza in cui, per superare distanze inconcepibili per la durata media di una vita umana, si deforma e si altera (o forse si falsifica?) il senso e lo scorrimento del tempo lineare ibernando l’equipaggio per rallentarne le funzioni vitali; oppure, ancora, quei viaggi interstellari percorsi alla velocità della luce, la quale “sfasa” il tempo stesso in differenti realtà: il viaggiatore, al rientro sulla Terra, per il quale saranno apparentemente trascorsi forse pochi mesi, o pochi anni, troverà invecchiate le persone della sua vita, oppure conoscerà i loro figli, o i figli dei loro figli. Chissà, forse ritroverà la propria bambina, il proprio bambino, con l’agghiacciante scoperta che la figlia, il figlio, sono più anziani di lui, diventando loro genitori del padre. Nel ritorno a “casa” di Salvatore sento la chiusura di un cerchio, e in fondo anche io, quando parlo di quel me-bambino, ingenuo e libero, leggero e partecipe di un disegno più grande di me, cerco il senso di questa linea curva che mi riporta a lui, che riporta lui a me; il filosofo Henri Bergson diceva che «Se la circonferenza è composta da una serie di punti, la memoria, come il cinema, è composta da una serie di immagini: immobile è in uno stato neutro; in movimento, è la vita stessa»[1]. Con umiltà (e umore, umorismo, umanità, umidità: sono tutti figli, prodotti dell’Humus, della terra) propongo a chi mi legge di accompagnarmi in questa breve passeggiata a ritroso verso la casa natale, quasi come un ritorno verso il proprio Sé, nella propria intimità, da cui potere ripartire e da cui potere rilanciarsi verso nuove e sconosciute direzioni: è quella che potremmo definire “teoria della fionda” (della quale sono grato debitore all’amico e collega Daniele Cardelli), secondo cui occorre una profonda introversione (il movimento retrogrado verso il soggetto), carica di tensione (la spasmodica trazione dell’elastico), che richiede impegno, per potere proiettare il proprio essere nello spazio (cioè l’avvenire). Questa teoria, presa in prestito dall’astrofisica, è conosciuta anche come teoria del ciclista temerario: per andare dalla cima della collina A alla cima della collina B il ciclista affronta spavaldo e senza freni la ripidissima discesa, per potere affrontare quasi senza pedalare la salita che lo condurrà in cima a B. Io, che provo, non so con quale successo, a tenere a bada la mia protervia, vorrei rinominarla come teoria del fromboliere paziente: la pazienza sta nell’impiego del tempo e dell’energia che occorrono per retrocedere il sasso e l’elastico tanto quanto basta perché acquisisca la giusta energia potenziale per percorrere lo spazio in avanti: un metro, dieci metri, oppure un mese, trent’anni. Perché questa strana metafora? Forse perché occorre tempo, il “giusto” tempo, per riappropriarsi del “proprio” tempo. Cosa rimane in me, di questi temi forse astratti (anche se mi percorre il sospetto che non lo siano poi così tanto), di immagini sopravvissute, e soprattutto di odori, suoni, sapori, folate di vento tra i capelli sudati e spettinati, di muri in pietra distrattamente sfiorati, eppure vivissimi e palpitanti e indelebilmente intramati tra le pieghe della mia memoria: una stanza, un angolo, una scala, la paglia, il calore della stalla, il rintocco delle campane, il buio della sera, il cono d’ombra del fanale, gli sguardi silenziosi delle persone, il gusto della frutta, l’odore dell’erba, la voce di chi c’era, il battere del martello, la paura dell’ignoto, il sapore del formaggio, la bellezza dell’ignoto, il suono del pane, il suono dei miei passi, le porte chiuse, le porte socchiuse, le tende svolazzanti, la corriera blu, il silenzio pomeridiano, l’odore della pietra della fontana, lo spazio dentro di me che mi attrae e mi spaventa… Nel Paese vi erano luoghi a me inaccessibili; nessuno me li aveva proibiti, ma era come se una Voce mi dicesse che andavano preservati alla vista. Erano luoghi comuni, ma io non dovevo inoltrarmi lì, pena la fine della magia; come le sacre vette himalayane, sulla cui cima non si deve poggiare piede, ma fermarsi pochi metri prima. Tutto quello era tabù ed io non lo sapevo; semplicemente, ubbidivo ad una regola interiore. Tutto ciò era reale; era la mia realtà. Erano i miei sensi a rendere reale il Paese, il mondo, l’universo; me stesso. Ero in loro e loro in me; di più, loro erano me e io ero loro. Ogni minuscola particella di paglia, di suono, di pietra, di silenzio, conteneva un giorno, una stagione, una esistenza, un destino. Il mio destino. Perché quel destino trovasse un compimento, qualunque compimento, dovevo rinunciare a tutto quello. Non sapevo quanto mi sarebbe mancato, tutto quello, o forse sì; forse la mia parte adulta, pensante, timorosa della morte, della fine, questo lo sapeva. Dovevo andare via, almeno con la mente, per proteggere quella realtà e lasciare che il ricordo mitico preservasse e proteggesse quella mia intima realtà. Quale realtà? La realtà vissuta o la realtà ricordata? Il Salvatore del film, quando torna al Paese, si muove prudente, delicato, forse intimorito; la sua voce è un sussurro. Il ricordo è un fatto dolce; è un rifugio in cui i simboli ritrovano il loro ordine. Il ricordo è un luogo intimo e fragile, in cui occorre muoversi con cura; non si può essere elefanti in una cristalleria; allora sì, riusciremo a sentire il fruscìo delle tende, la brezza sul filo d’erba, il seme che cade dal tavolato, la formica sul selciato. È lì che la nostra esistenza scopre l’eternità. È lì che, finalmente liberi dalla nostalgia, scopriamo che il ritorno alla casa non è una chiusura; è il ritorno che ci rende padri dei nostri padri, madri delle nostre madri. Il Paese di Salvatore diventa, così, il luogo del limite, tra ciò che abbiamo e ciò che siamo, il limite sottile tra l’oblio e il ricordo. L’oblio è la luce intensa, spietata, che azzera i contorni e le sfumature; è la crudezza dell’opulenza, che ci illude di avere ogni cosa in ogni momento, ma che uccide i sogni e mortifica l’amore; il ricordo è nel crepuscolo; nella luce del fanale di strada che rischiara un lembo di strada e gioca e lotta con gli ultimi raggi di luce solare. È nel ricordo che cerchiamo la nostra strada per l’individuazione; molti tratti di questo percorso sono a malapena percepibili. A volte sono invisibili; sono inconsci. Sovente l’incontro con l’inconscio è doloroso; se non siamo sufficientemente attrezzati, rischiamo di innalzare muri difensivi che ci danno l’illusione di riuscire a proteggere il nostro presente pubblico, di facciata, quello che Jung definiva come la “ricostituzione regressiva della Persona”, che ci fa credere di potere identificare e sovrapporre ciò che siamo con il ruolo sociale che occupiamo. Ecco, forse il suggerimento che può arrivarci dal film – o, almeno, è quello che sento significativo per me – è che, ad un punto significativo della nostra vita (per Salvatore è la “morte” di Alfredo), ci si possa “liberare” e rinunciare alla propria immagine stereotipata, bidimensionale, anodina e anestetica, per non rinunciare al proprio vero Sé: per Salvatore si apre la possibilità di potere, finalmente, ripristinare il legame con Totò, insieme paterno e filiale. Adesso, però, è giunto davvero il momento di farmi da parte; il Film, che come una Matrjoska contiene altri film, mi ha permesso (o mi ha costretto?), attraverso lo specchio di Nuovo Cinema Paradiso e “sfruttando” Totò, Salvatore, il Paese, di guardare e guardarmi, in un vertiginoso gioco di rimandi nel quale perdere le coordinate spazio-temporali e ritrovare sé stessi. È solo uno specchio, ma è di tutti; basta volerlo, senza paura. [1] Henri Bergson, Materia e memoria, Laterza, 2009.Tag: Cinema, memoria, nostalgia, psicoanalisi