L’EQUILIBRIO DEL DIVENIRE – Al di là dei confini de le sfere stellate
«The sweet smell of a great sorrow lies over the land Plumes of smoke rise and merge into the leaden sky A man lies and dreams of green fields and rivers But awakes to a morning with no reason for waking He’s haunted by the memory of a lost paradise In his youth or a dream, he can’t be precise He’s chained forever to a world that’s departed It’s not enough, it’s not enough His blood has frozen and curdled with fright His knees have trembled and given way in the night His hand has weakened at the moment of truth His step has faltered One world, one soul Time pass, the river rolls And he talks to the river of lost love and dedication And silent replies that swirl invitation Flow dark and troubled to an oily sea A grim intimation of what is to be There’s an unceasing wind that blows through this night And there’s dust in my eyes, that blinds my sight And silence that speaks so much louder than words Of promises broken»* [Sorrow – Pink Floyd – 1987] Il fiore, a parte forse pochissime eccezioni, è una di quegli oggetti naturali dai quali l’essere umano non trae un reale vantaggio materiale: è scarsamente commestibile ed è troppo fragile per costituire un sostegno affidabile. In sintesi, non è “utile”; eppure, nei fiori gli individui hanno riversato e colto pensieri, sensazioni, emozioni e fiumi di ispirazioni poetiche più o meno riuscite. Tuttavia questo titolo, “I fiori del male”, ha ancora, dopo tanti anni, un impatto significativo su ogni generazione; c’è in esso qualcosa di traverso, qualcosa insieme di attraente e di conturbante. Si è detto e scritto che la psicoanalisi è “la terapia della parola”; forse è anche vero, a volte è vero, altre volte lo è meno oppure non lo è per nulla. Quelle volte in cui è la parola a dare identità all’anima, quella stessa parola appare netta, circostanziata, spietata come un dardo apollineo (ovviamente Apollo è il dio della poesia e delle arti); altre volte, invece, la parola, in analisi, è sfumata, ambigua, incerta fino a diventare un sussurro esitante e sfuggente, ignaro soggetto di una interpretazione narcisisticamente autoreferenziale, rischiosa, audace, brillante. Scrive Baudelaire ne “I fiori del male – Rispondence”: «La Natura è un tempio in cui dei pilastri viventi lasciano talvolta uscire confuse parole; l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli che l’osservano con sguardi familiari». Ancora sulla interpretazione: forse essa sarà errata, perché fuori tempo o fuori misura. Scrive il poeta Jean Lescure, in una introduzione alla “Psicoanalisi del fuoco” di Gaston Bachelard: «Il regno delle parole è dominato dal dubbio. Ed è altrettanto pieno delle insidie del mondo, la cui visibilità garantisce allo spirito l’evidente e semplice realtà (…). Abbiamo voluto credere all’autorità del verbo rivelato (…). Colui che si serve delle parole e che pensava ingenuamente di poterle utilizzare senza troppe difficoltà per esprimere intenzioni chiare, comincia a rendersi conto che le parole oppongono resistenza (…). Sfuggendo ai ruoli che lo spirito pensava di assegnar loro, alle concatenazioni in cui credeva di imprigionarle, le parole formano innumerevoli combinazioni, attraverso le quali si sottraggono alle intenzioni dell’autore, assumono significati involontari, sorprendono». Sarà per questo che è l’ascolto, più che l’interpretazione, che “libera” – o dovrebbe liberare – lo psicoanalista e i suoi pazienti dalle mura turrite e definitive della “giusta” interpretazione. Le parole, in analisi e nella vita fuori dalla stanza dell’analista, vanno scelte, ponderate, costruite e trattate con il rispetto che riserveremmo ad un essere insieme coriaceo e fragile; sono pietre, utili a costruire ponti, case e strade, ma possono essere macigni che rovinano, ostacolando e confondendo il nostro cammino. Vorrei da subito precisare cosa mi prefiggo di non fare in questo breve scritto. Non oserò cimentarmi nella analisi del testo, né del significato storico e letterario di Baudelaire e della sua opera, perché non sarei capace di farlo bene, o almeno abbastanza bene, men che mai in uno scritto breve. Non spiegherò nulla della poetica di Baudelaire, e questo per un motivo prettamente etimologico e professionale (quindi intimo): nella “spiegazione” vi è la volontà e il tentativo di “stirare”, di rimuovere le pieghe; nel mio mestiere, però, le pieghe dell’anima sono come quei tornanti di montagna che attraversano il territorio, assecondandone e condividendone le altimetrie, le asperità, le irregolarità; scrive sempre Lescure, riferendosi alla poesia: «Le spiegazioni ipotizzate sono impotenti a rivelarla». “Spiegare” Baudelaire, quindi, secondo la mia chiave di lettura, equivarrebbe ad attraversare un territorio magnifico in una comoda e noiosa autostrada o, ancor peggio, dentro un tunnel illuminato, levigato e rettilineo che ci consenta di risparmiar tempo. Riprendo il titolo più famoso dell’opera di Baudelaire e forse uno dei più famosi della poetica di tutti i tempi. “I fiori del male” (identico all’originale francese): se la prima parola, l’articolo determinativo di apertura, identifica gli oggetti-fiore come una entità circoscritta e “finita” e non come una rassegna infinita e indifferenziata di fiori (come dire “tutti i fiori del mondo”), quella preposizione articolata posta tra la leggiadria del primo termine e la nerezza del secondo è un enunciato del senso psicologico che permea questo capolavoro della letteratura mondiale: i fiori sono del male, appartengono al male, sono un prodotto, una creatura, una manifestazione del male. La condizione psicologica esistenziale rappresentata da Baudelaire è, quindi, segnata da una irrinunciabile e inevitabile oscillazione tra una trama angosciata, cupa, orizzontale e grevemente disperata (spleen) e una verticalità spirituale, cromatica e umanamente speranzosa (idéal). L’inconscio opera per unire gli opposti e per relativizzarne i significati, nutrendosi di simboli più che di segni. Il Bene non può che sorgere dal Male; di più, il Bene non può esistere senza il Male: il Male è una potenza creativa, è turbamento, è squilibrio, è un ribollire di energie cui l’uomo soccombe e il grande problema del male nell’individuo, più che dall’Ombra, è rappresentato dal tentativo di ignorarne o negarne l’esistenza. È innata negli esseri umani la tendenza a disconoscere la propria Ombra, ricercando eufemismi per descriverla o, peggio, proiettandola fuori da sè. Ma il Male è “lì”, con la sua necessità, la sua ananke. Sulla irrinunciabilità del Male si pronunciò persino Paolo VI, Vescovo di Roma, nel 1972: «[Il male] lo troviamo nell’ambito umano, dove incontriamo la debolezza, la fragilità, il dolore, la morte, e qualche cosa di peggio: una duplice legge contrastante, una che vorrebbe il bene, l’altra invece rivolta al male (…). Il male non è più soltanto una deficienza, ma un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa». Credo che l’effetto “terapeutico” de “I fiori del male” e la loro incessante attrattiva siano riconducibili alla straordinaria – e spietata – capacità “immersiva” di Baudelaire di “fermare” le torbide immagini d’Ombra da cui si elevano le diafane e speranzose immagini di Vita. La trama poetica ed esistenziale di Baudelaire giace tra il desiderio e il bisogno di spiritualità e la gravità del peccato e della perdizione. Ogni tema e ogni trama psicologica contenuti nell’opera di Baudelaire trovano una dolorosa base in sordidi scenari depressivi, ripugnanti e pieni di vermi, simili a viscidi rimorsi, da cui, però, emergono raggi verticali, proiettati alla ricerca di un cielo terso e gravido di speranza; entrambi i contesti, però, non possono essere concepiti l’uno senza l’altro. Anche la morte appare intrisa ora di sensazioni serene, ora di desolato degrado: «La Morte consola, la Morte, ahimè, fa vivere… / Lei scopo della vita, lei speranza / Unica, elisir che tonifica e inebria / e ci dà forza d’arrivare a sera; / lei che attraverso il gelo, la neve, la tempesta / fa vibrare di luce l’orizzonte tenebroso (…)» (“I fiori del male – La morte dei poveri”). Nella mestizia della morte, Baudelaire intuisce una via di salvezza e di pace, trovando una intima eco in ciò che scriveva Sofocle nell’”Edipo a Colono”: «Non nascere: è il mio pensiero più dolce. Eppure nati una volta è poco male riandarsene subito dove eravamo». È proprio in questa incessante tensione tra il Bene e il Male che risiede la poetica di Baudelaire; è uno stato dell’anima paradossale, poiché convivono il desiderio di ascesa a Dio e la ricerca di Satana, l’urgenza di ri-trovare la propria animalità nei meandri più infimi dell’essere: una incessante contesa tra carne e spirito. Cosa evoca, cosa libera in noi la lettura di Baudelaire; perché, a distanza di tanti anni, attraversati da tante generazioni intermedie, si attiva una così forte risonanza d’anima tra lo scritto e il nostro sentire? Un approccio ispirato alla psicologia del profondo ci consegna alcune chiavi di accesso per inoltrarci in un livello di pensiero, sentimento, intuizione e sensazione – secondo le quattro funzioni psichiche dominanti, contenute nel corpus della psicologia analitica sviluppata da Carl Gustav Jung – che ci appare esorbitante rispetto i confini della nostra psiche. È come se noi leggessimo Baudelaire orizzontalmente con la nostra coscienza e il nostro senso deputato – la vista – ma captassimo più profondamente certe vibrazioni altrimenti inafferrabili dall’Io. Leggere Baudelaire in modo psicologico, secondo la strada indicata da James Hillman, significa rinunciare ad una comprensione dei fenomeni psicologici, biologici e parapsicologici in un ambito razionale e “scientifico”, ma equivale a consentire l’accesso a dimensioni prossime alla verticalità (l’inconscio personale) e alla pluridirezionalità, fatta da luoghi, oggetti, individui, contesti, lontani dall’individuo nel tempo e nello spazio (l’inconscio collettivo). Se mi si consente una incursione sommessamente perplessa nella attualità, l’idea di “metaverso”, di recente diffusione, non contiene esattamente tutti i crismi della originalità (è giusto, però, per non caricare Zuckerberg anche di questo merito, riconoscere la “paternità di conio” di tale neologismo al suo vero creatore, Neal Stephenson, uno scrittore di fantascienza, che lo utilizzò nel suo romanzo del 1992, “Snow Crash”, mutuandolo dal cyberspazio del romanzo “Neuromancer” dello scrittore William Gibson). La poetica di Baudelaire è costellata di immagini ed è un costante invito alla immaginazione, che, in fondo, è una delle idee fondanti della psicoanalisi (i termini greci idea e video condividono il medesimo etimo). Diceva Hillman: «Conoscere la profondità della mente significa conoscere le sue immagini, leggere le immagini, ascoltare le storie con un’attenzione poetica, che colga in un singolo atto intuitivo le due nature degli eventi psichici, quella terapeutica e quella estetica». Credo che l’ars poetica debba seguire una missione e una visione: restituire all’anima una dimensione catartica e una ritrovata capacità di meraviglia, di sensibilità, di ricordi, di progetti e di intimità, tutti oggetti psichici oggi sempre più spesso relegati negli angoli più trascurati della nostra esistenza, nascosti per vergogna, opportunità, prudenza o pudore. Cosa chiediamo, allora, cosa cerchiamo nell’opera di Baudelaire? La possibilità di accendere la nostra attività immaginativa, o di riaccendere ciò che nella nostra infanzia ci consentiva di penetrare la materia ed oltrepassare i limiti di tempo e spazio, quando smontavamo e distruggevamo i giocattoli (indispettendo gli adulti che attribuivano all’oggetto solo il valore economico), volteggiavamo in epoche e luoghi razionalmente inconciliabili e irreali e svelavamo e creavamo un cosmo in continua e capricciosa trasformazione. È questo, è anche questo che coniuga l’analisi e la poesia: una esperienza transizionale in cui la verità reale e la verità psichica accolgono e dànno dimora agli Dei, che a loro volta si fanno storia, si fanno narrazione. “I fiori del male” hanno la struttura metaforica del viaggio; è un viaggio drammatico nei meandri più infernali dell’esistenza e sull’infinito conflitto tra l’orrore e l’estasi, a cui solo la morte può porre una definitiva fine, e Baudelaire ne dipana la trama come grani di Rosario, sperimentando l’ineluttabilità dell’Ombra come archetipo dell’Uomo, di ogni uomo. Il dilemma esistenziale che ammanta “I fiori del male” e, in genere, l’opera di Baudelaire, è rappresentato dalla pesante, ambigua attrazione e repulsione del Male come dolore paralizzante, da cui, in empiti di energia dirompente e luminosa, si separa il Bene, ma solo in modo effimero e quasi disperato, in una forma illusoria di felicità che è per sua natura fragile e fugace; scrive Salvatore Natoli: « (…) il dolore inchioda, stringe e costringe, la felicità lambisce: balena e dispare (…). La felicità si disegna dunque a prima vista come un bene transitorio, ove il dolore si rivela, invece, per gli uomini come una condizione più consueta». Baudelaire ha condotto ad un livello sommo l’inscindibilità tra la vita come elevazione e speranza, contrapposta ma mai disgiunta dal dolore e dalla abiezione; in più, una costante della sua poetica, e in guisa sublime nei “Fiori del male”, è la sua relazione con il “fondo”, cioè l’Ombra, che ci atterrisce ma che insieme ci attira a sé, in quanto elemento costitutivo del nostro Sé . In chiusura, la scrittura di Baudelaire, se pur dissacrante e disturbante, al punto di aver subìto la censura del tempo, è permeata di una sua intrinseca armonia; aver indagato insieme le bassezze e le dolcezze dell’anima, facendone insieme motivo di vita e di anelito alla morte, quindi non soltanto esercitazione artistica, ha conferito ad essa la capacità di consegnare a noi tutti il privilegio di poter osservare le oscillazioni dell’anima di Baudelaire con gli occhi della nostra anima: «In una terra grassa e piena di lumache voglio scavarmi una fossa profonda in cui possa a tutto mio agio adagiare le mie vecchie ossa e dormire ne l’oblio come uno squalo ne l’onda (…). O vermi, neri compagni senza orecchie e senza occhi, guardate venire a voi un morto libero e allegro! Filosofi gaudenti, figli della putrefazione, passate dunque senza rimorsi a traverso la mia ruina, e ditemi se v‘è ancora qualche tortura per questo vecchio corpo senz’anima e morto tra i morti!» (“I fiori del male – Il morto allegro”). La forza dirompente dei suoi scritti è come un tuffo nei meandri della nostra Ombra e dei suoi miasmi, una occasione per potere riconoscere in ognuno di noi quelle parti meno nobili, meno eroiche e meno luminose, che vorremmo tanto poter attribuire esclusivamente all’Altro, mondandoci da ogni “cattivo pensiero”, così da porci illusoriamente in una posizione polarmente e pericolosamente buona. Riconoscere in noi, in ciascuno di noi e dentro di noi l’esistenza di “coni d’ombra” è il primo, fondamentale passo per intraprendere un percorso di individuazione che ci approssimi sempre più verso il nostro “centro di esistenza e divenire”. Post Scriptum: si dice sovente che la scelta (ma siamo certi di scegliere e di non essere scelti?) di diventare terapeuta analitico anziché altro nasca dalla presenza nel nostro intimo di aspetti conflittuali e non armonizzati o non risolti (non ancora, si spera). Se può essere interessante per qualcuno, sono d’accordo. Ho incontrato Baudelaire, come tanti, durante l’adolescenza, epoca in cui molti, o alcuni, si sentono contemporaneamente in grado di fare e divenire tutto e incapaci di essere o approdare in qualcuno o in qualcosa. Se Baudelaire ha avuto un influsso nella mia psiche di quel tempo, credo sia stato quello di avermi aperto alla libertà di tollerare e accogliere i cieli infiniti, ma anche gli orridi più ripugnanti, lasciando che la mia anima scoprisse e percorresse entrambi gli estremi senza riconoscersi – o perdersi – in uno soltanto dei due, ma accettando ogni umana oscillazione, ogni incertezza, ogni errore, come manifestazioni di un Cosmo che, ancora oggi, non cessa di meravigliarmi. Gaetano Roberto Buccola Palermo, Novembre 2021 * Dolore Il dolce profumo di un grande dolore giace sulla terra Pennacchi di fumo si alzano e si fondono nel cielo plumbeo Un uomo disteso sogna prati verdi e fiumi Ma una mattina si sveglia senza una ragione per svegliarsi È ossessionato dal ricordo di un paradiso perduto Nella sua giovinezza o in un sogno, non può essere preciso È incatenato per sempre in un mondo che non c’è più Non è abbastanza, non è abbastanza Il suo sangue si è gelato e coagulato per la paura le sue ginocchia hanno vacillato e ceduto nella notte la sua mano si é indebolita nel momento della verità il suo passo ha vacillato Un mondo, un’anima Il tempo passa, il fiume scorre E parla al fiume di amore perduto e dedizione e risposte silenziose di un vorticoso invito nuziale scorrono scure e agitate verso un mare oleoso una cupa premonizione di ciò che sta per accadere Un vento incessante soffia in questa notte e polvere che acceca i miei occhi e il silenzio che parla molto più rumorosamente delle parole di promesse spezzate [Traduzione mia]Tag: Baudelaire, bene, male, psicoanalisi